Com’è cambiata la percezione del suicidio nella storia, da Seneca ai lager

Le motivazioni individuali e collettive dell’atto di togliersi la vita cambiano attraverso le epoche, le culture e le ideologie. Così come evolvono il giudizio morale e giuridico. Dalla condanna religiosa alla riflessione laica e la complessità del rapporto umano con la morte volontaria

Anche quando si avvicina alla soglia del salto, l’aspirante suicida deve mostrarsi all’altezza delle arroganze della vita, altrimenti non troverebbe il cammino verso la libertà e sarebbe come il prigioniero di un campo di concentramento che non osa gettarsi sul filo spinato (Jean Améry (deportato e torturato ad Auschwitz), “Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte”, 1976).



Secondo un famoso adagio di Benjamin Franklin, in questo mondo non c’è nulla di certo tranne la morte e le tasse. Non è del tutto esatto. Da quando sono apparse (tremila anni prima di Cristo, l’Egitto aveva già un sistema fiscale codificato), c’è sempre qualcuno che riesce a evadere le tasse ricorrendo a sotterfugi più o meno leciti. E’ solo contro la “commare secca”, come la chiama in un sonetto Gioachino Belli, che si rivelano vani. Nostro malgrado, dobbiamo rassegnarci: il tasso di mortalità continuerà a essere del cento per cento, nonostante gli straordinari progressi della medicina moderna. E oggi, come abbiamo visto durante la pandemia, la morte e il morire vengono spesso tenuti lontani da sguardi indiscreti, confinati negli ospedali, nelle strutture che forniscono assistenza specializzata e nelle case di cura. Un tempo chi era in punto di morte trovava conforto nella propria abitazione, circondato da parenti e amici a cui si poteva dire addio con serenità. Oggi, invece, è molto probabile che ciò avvenga al termine di terapie costose, con l’ausilio di macchinari sofisticati e sotto la sorveglianza del personale medico. La stessa pratica funeraria – sepoltura o cremazione – si svolge ai margini della comunità, in senso sia fisico che culturale. Oggi, insomma, la morte può essere clandestina ed è malaccetta, come lo era in passato quella di chi se la procurava deliberatamente.



Non sempre e non ovunque, però. La storia umana è infatti piena di suicidi per viltà o per amor di patria, per fanatismo o per vendetta, per senso di colpa o per sfiducia, per mille ragioni e per mille passioni. Nell’opinione pubblica occidentale è diffusa l’opinione, analizzata da Émile Durkheim già alla fine dell’Ottocento (Le suicide: étude de sociologie, 1897), che chi si toglie la vita sia spinto dalla povertà e comunque da una condizione sociale disagiata, o che sia mentalmente “anormale” e soffra di disturbi della personalità. Non è così, come ha dimostrato uno dei nostri più eminenti sociologi in un volume – di cui sono debitrici queste note – che è ormai un classico della letteratura scientifica sul suicidio (Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, il Mulino, 2010).

Il kamikaze giapponese o il terrorista islamico che si immolano in una missione suicida hanno in comune l’odio verso il paese nemico, il suo governo, il suo esercito. Odio che può essere originato dalle umiliazioni, i soprusi, le violenze subite dal proprio popolo. L’11 giugno 1963, un monaco buddista si diede fuoco a Saigon per protestare contro il regime vietnamita. Da allora, il suo gesto è stato emulato migliaia di volte in India, nel sud-est asiatico e persino negli Stati Uniti. In Cecoslovacchia, lo studente universitario Jan Palach si fece bruciare tra le fiamme per protestare contro l’occupazione sovietica (16 gennaio 1969). Nell’aprile 1989, gli studenti e gli operai di Pechino che in Piazza Tienanmen rivendicavano i più elementari diritti civili e politici si lasciarono schiacciare dai carri armati del primo ministro Li Peng.



Il suicidio, beninteso, può essere motivato anche da ragioni personali, dalle esperienze dolorose di tutti i giorni, per quello che hanno subito i propri famigliari o i parenti più stretti, quando qualcuno di loro è stato vilipeso o ucciso. Da qui può nascere un desiderio di rivalsa e di ritorsione, assai vivo ad esempio nelle “vedove nere” cecene e nelle combattenti curde, che può arrivare fino all’estremo sacrificio personale. C’è poi il suicidio di chi è affetto dal “mal de vivre”, lo “spleen” di Charles Baudelaire, cioè da una inesauribile malinconia e noia esistenziale, da un viscerale disgusto per la vita. Da qui nasce il mito della depressione come tratto distintivo delle élite culturali e dei ceti borghesi più elevati, mentre gli odierni studi epidemiologici dimostrano che essa colpisce tutte le classi sociali. Cesare Pavese si tolse la vita nel 1950 con una lucida motivazione razionale, così come aveva fatto Seneca nel 65 d.C. Mentre Ernest Hemingway si suicidò nel 1961 travolto da una psicosi maniaco-depressiva. Fortunatamente, il suicidio non è la conclusione obbligatoria di una patologia che nei casi più gravi è una sofferenza angosciosa e totalizzante, un fitto labirinto di cui non si scorge né si cerca l’uscita, e in cui nulla può cambiare e niente può aiutare. La depressione vera, come l’ha descritta il neurologo Paolo Berruti con un’immagine efficace, è come un mare senza luci, senza orizzonti, senza spiagge (psicofarmaci e psicoterapia non sempre fanno miracoli). La speranza che oggi fortunatamente sorride persino a chi è affetto da un tumore, al depresso cronico è negata. Dopo aver appreso che nel 1933 i suoi libri erano stati messi all’indice in Germania, il drammaturgo viennese Stefan Zweig emigrò a Londra e poi in America. Qui, il 15 giugno 1940, annotò nel suo diario: “I soldati di Hitler si stanno sistemando di fronte all’Arco di Trionfo. La vita non vale più la pena di essere vissuta. Ho quasi cinquantanove anni e i prossimi saranno terribili. Perché allora sopportare tutte queste umiliazioni?” (Stefan e Lotte Zweig, La vita stessa è già tanto in questi giorni. Ultime lettere dall’esilio americano, Castelvecchi, 2022). Due anni dopo si uccise in Brasile con la sua seconda moglie.

Nel Medioevo era in vigore il principio per cui con la morte del reo si estingue il reato. Ma per il suicidio si faceva eccezione: corpi disumanizzati



Per molti secoli, i teologi e i giuristi hanno considerato il suicidio un peccato e un delitto più esecrabile dell’omicidio. In Europa, ma anche nelle colonie americane, le autorità religiose e quelle civili punivano con pene severe chi si toglieva la vita o tentava di farlo. Già nel Medioevo era in vigore il principio del “crimen estinguitur mortalitate” (con la morte del reo si estingue il reato). Ma per il suicidio si faceva eccezione, cosicché chi si macchiava di questo delitto veniva sottoposto al giudizio dei magistrati. Cominciava allora un processo di disumanizzazione in cui il cadavere del colpevole veniva dato in pasto al disprezzo della popolazione. In certi casi veniva decapitato, mutilato o squartato con inusitata ferocia. I giudici talvolta condannavano il suicida all’impiccagione, a “morire una seconda volta”, come osserva Montesquieu nelle Lettere persiane (1721). Veniva inoltre spogliato dei suoi beni, né poteva ricevere gli onori funebri ed essere sotterrato in un cimitero. Per capire come è nata questa criminalizzazione del suicidio, occorre fare un passo indietro. Nell’antica Roma, agli uomini liberi era consentito di togliersi la vita per i più svariati motivi: malattia, perdita di una persona cara, “furor” (accesso di follia), “insania” (incapacità di intendere), sconfitta in battaglia. Ma, almeno nell’élite colta che si rifaceva allo stoicismo, il suicidio era non solo tollerato, ma considerato una virile espressione di libertà, l’unica che permetteva di avvicinarsi agli dèi immortali. Anche per questo motivo il suicidio era preparato con cura e compiuto senza tradire paura di fronte a numerosi testimoni.

La frattura con l’universo culturale romano inizia quando Agostino prende posizione su due questioni cruciali: i martiri e le vergini

La frattura con questo universo culturale inizia nel V secolo d.C. Il suo autore, Agostino, la realizza prendendo posizione su due questioni cruciali del suo tempo, una riguardante i martiri, l’altra le vergini. Dopo la conversione di Costantino (312-313), si era costituita una corrente scismatica del cristianesimo, il donatismo, che – in nome della purezza del martirio – sosteneva la legittimità dei suicidi individuali e collettivi. Per altro verso, nel 410 i visigoti avevano espugnato Roma, saccheggiandola e costringendo molte donne stuprate a togliersi la vita per il disonore.



Il vescovo di Ippona scomunicò sia i donatisti che le donne violentate, argomentando che il quinto comandamento (“non uccidere”) non valeva solo per l’altro da sé. Infatti, quando voleva riferirsi ai rapporti con i suoi simili, Dio lo aveva chiaramente specificato (“non renderai falsa testimonianza contro il prossimo tuo”). Perciò non poteva essere giudicato innocente colui che “ha commesso omicidio contro se stesso, dal momento che l’omicidio è proibito contro il prossimo” (De patientia, 415). Alla fine del Duecento, Tommaso d’Aquino riprese questa tesi con nuovi argomenti. Sulla scia di Aristotele, per il quale chi si taglia la gola commette un’ingiustizia verso la polis, così per il Dottore Angelico chi si uccide arreca un danno alla società di cui fa parte, privandola di un suo membro. Inoltre, poiché la vita è un dono di Dio, chi se ne priva pecca gravemente contro la sua bontà. Questo sistema di idee ha influenzato profondamente la civiltà occidentale, ed è stato accolto addirittura in modo più convinto e deciso dalle confessioni protestanti sorte dopo la Riforma. Nella teologia del luteranesimo e del calvinismo era centrale il sentimento della disperazione, lo stato d’animo in cui sprofonda chi è lontano dalla grazia e dalla misericordia divine, e perciò non sa resistere alle tentazioni del diavolo. Tant’è che in inglese, in francese e in altre lingue, “despair”, “désespoir”, desesperación”, “desesperance”, furono usati come sinonimi di suicidio.



Fu Montesquieu a riaprire il dibattito sulla liceità del suicidio. Vi parteciparono, nel corso del Settecento, i più brillanti intellettuali europei. Cesare Beccaria e Voltaire caldeggiarono la sua depenalizzazione. David Hume sostenne che non poteva in alcun modo alterare l’ordine naturale delle cose e l’armonia del cosmo. Ma, prima di loro, fu William Shakespeare ad affrontare il tema del suicidio in trentadue lavori teatrali. Evitò sia di condannare che di assolvere il suicida. Gli interessava, piuttosto, esplorare i suoi conflitti interiori, il senso della sua azione, la complessa esperienza umana in cui era maturata. In uno dei brani più celebri della letteratura mondiale (il monologo di Amleto), si chiese se fosse giustificabile togliersi la vita per “non sopportare le frustate e gli insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri”. E laicamente rispose che, se la maggioranza degli uomini e delle donne decideva di non farlo, non era tanto perché temesse l’ira divina o le pene dell’autorità, quanto piuttosto perché non sapeva cosa sarebbe accaduto nell’aldilà, quella “terra inesplorata donde mai tornò alcun viaggiatore”.



E’ dunque nel Sei-Settecento che si profila una nuova concezione della morte volontaria, sollecitata da quei mutamenti culturali, economici e sociali che annunciavano il tramonto dell’Antico Regime. Le colonie inglesi del nord America furono le prime ad abolire le norme che punivano il reato di suicidio. In Europa, il sovrano che si fece interprete del nuovo spirito fu il giovanissimo Federico II di Prussia. Il processo di revisione dei codici penali proseguì nel corso dell’Ottocento, pur tra l’ostilità di alcune monarchie e l’opposizione della Santa Sede. Il codice penale del Regno di Sardegna del 1835 stabiliva che “chiunque volontariamente si darà la morte è considerato dalla legge come vile”. Ancora nel 1917, il codice di diritto canonico promulgato da Benedetto XV riconfermava il divieto di suicidarsi.

Il Catechismo del 1992 riconosce che circostanze come l’angoscia della sofferenza e della tortura “possono attenuare le responsabilità del suicida”

Più tardi, il Catechismo della chiesa cattolica del 1992, voluto da papa Wojtyla, riconosceva che “gravi disturbi psichici, l’angoscia e il timore grave della prova, della sofferenza e della tortura, possono attenuare le responsabilità del suicida”. Sorprendentemente, nella liberale Inghilterra il reato di suicidio venne formalmente abrogato solo nel 1961. Nel corso del Novecento, milioni di persone hanno passato una parte della loro vita in un campo di concentramento o in carcere, due istituzioni con molte caratteristiche comuni. Entrambe possono avere effetti devastanti sulla carne e sulla psiche dei reclusi. E dunque possono indurre a togliersi la vita. Tuttavia, mentre abbiamo dati abbastanza precisi e affidabili sulle morti volontarie in carcere, su quelle avvenute nei lager nazisti e nei gulag sovietici disponiamo soltanto di statistiche frammentarie e delle testimonianze dei sopravvissuti. Sappiamo però che negli anni Trenta i nazisti, come i fascisti in Italia, commentavano con cinica quanto grottesca ironia le notizie dei suicidi degli ebrei. Nell’estate del 1933, quando si uccise Fritz Rosenfelder, un uomo d’affari di Stoccarda, un foglio locale scrisse che aveva dato un contributo importante alla soluzione della questione ebraica. Il 29 novembre 1938, quando a Modena l’editore Angelo Fortunato Formiggini si gettò dall’alto della Ghirlandina, Achille Starace disse che era morto proprio come un ebreo, buttandosi da una torre per risparmiare un colpo di pistola. Non bisogna menarne scandalo. In tutte le epoche, la tragedia anche del più nobile tra i suicidi è sempre stata fischiata dagli spettatori assiepati nel loggione degli ignavi.

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