Di nuovo i Baustelle. Repertorio californiano, storie avvelenate e la vocalità unica di Bianconi

È uscito “El Galactico”, il decimo album della band di Montepulciano. Dodici pezzi stringati, tra loro coerenti, ascoltando i quali si ha la sensazione che il gruppo abbia ritrovato convinzione, forza espressiva e soprattutto una messe di nuove soluzioni

Un bel ritorno quello dei Baustelle con “El Galactico”, decimo album della loro storia, a due anni dal precedente “Elvis”, festeggiando il venticinquennale della fondazione della band (all’alba del terzo millennio, con l’esordio entusiasmante “Sussidiario illustrato della giovinezza”). Raccogliendo la traccia dell’ultima fatica, Bianconi e soci riattivano la propria ricerca sonora, di nuovo edificata su solide fondamenta chitarristiche che mettono definitivamente al passato le epoche electropop e orchestrali, traversate fino a non troppo tempo fa.

Dev’essere stato soprattutto il lavoro dal vivo a permettere ora alla band di Montepulciano di focalizzare sempre meglio il progetto, fino a mettere giù una batteria di dodici pezzi stringati, tra loro coerenti, ascoltando i quali si ha la sensazione che il gruppo abbia ritrovato convinzione, forza espressiva e soprattutto una messe di nuove soluzioni.

Il gioco, lampante dai primi solchi del lavoro, è prima di tutto filologico: il talentuoso trio italiano si è inoltrato nell’esplorazione dello splendore storicizzato dal suono californiano di fine anni Sessanta. In quella fase gli strumenti sono veramente, puramente elettrici, dai magici laboratori Rickenbacker di Santa Ana escono le magnifiche chitarre a sei e dodici corde che generano il melodico clangore capace di mandare in orbita i Byrds e i Buffalo Springfield, e intanto più giù, a sud, nella villetta della famiglia Wilson si perfezionano le armonie vocali che diventeranno l’inimitabile copyright dei Beach Boys, capace di iniettare un liquido fattore onirico nel breve viaggio di una canzone pop di tre minuti. I Baustelle manipolano sapientemente questi repertori, se ne appropriano e palesemente li usano per progettare un matrimonio strano ed efficace con le sinuose melodie che sono il marchio di fabbrica della band, con quella vocalità lunga di Francesco Bianconi, capace com’è lui di renderla cangiante – malinconica, poi dispettosa, poi provocante e d’improvviso gloriosa e commovente, pronunciando però liriche di strada tipicamente italiane, cose di provincia, l’abituale campionario di perdizioni che da sempre si riverbera nel vissuto-Baustelle, quel modo loro d’essere dolci e crudi nello stesso versetto (“Stronzo, non lasciarmi / fammi male / mentre parlano di noi / al Tg1 della sera” recita il fulminante attacco di “Una storia” – che è una cronaca sporca d’una maledetta violenza consumata in un’auto.

E riecco il contrasto soave-acido, imprinting di queste teste strane). Tossiche, avvelenate, decadenti, odorose di morte e fallimenti, le storie pronunciate dalle ugole di Francesco e Rachele hanno il vezzo di saperla lunga su come vadano le cose qui da noi, talvolta di metterle in burla o in danza, immergendole nella musica delle illusioni che inventarono in quell’America innocente e di frontiera di mezzo secolo fa.

Cosparse di fischietti dylaniani, rifiuti, ricordi scaduti e perdite dolorose, queste canzoni rapiscono l’attenzione di chi ascolta, lo portano altrove, cristallizzano un attimo quando, con una maestria che non ha paragoni nella nostra scena, il crescendo vocale e il trionfo musicale risolvono un pezzo, quasi fosse l’epilogo di una pellicola del new cinema di Bob Rafelson.

In sostanza, dopo aver accolto con soddisfazione questo lavoro e aver preso nota del geniale contributo offerto dal produttore deputato, Federico Nardelli, romano, 35enne, già al servizio, tra gli altri, di Jovanotti, Vasco Brondi e di Gazzelle, e in attesa d’assistere con curiosità alla versione live di questa scaletta “summer of love fuori tempo massimo”, si può concludere con l’ultimo, celibe interrogativo: dove piazzare adesso, questo ensemble intermittente, a tratti surreale, sguaiatamente letterario, però audace e giustamente menefreghista, che Bianconi trascina verso il secondo quarto di secolo della sua storia, navigando la miope deriva artistica del presente italiano? Insomma chi sono veramente i Baustelle – situazionisti o guastatori, esteti anarchici o perfezionisti di quartiere, capolavori eternamente mancati o ultima incarnazione dell’intellettuale dilaniato, dai suoi vizi, dai traguardi mancati, dalla grandezza bramata e sempre sfiorata? Perché diavolo con tutto questo spreco di talento, per un Bianconi che si applica seriamente, che non si perde in vanità, che riprende a crederci, è così difficile tramutarsi una volta per tutte in qualcuno nei dintorni di De Gregori o di De André o, meglio ancora, di Luigi Tenco? Potrebbe meritarselo, il sentore è che sarebbe disposto a fare carte false per riuscirci, se solo non cadesse vittima dell’insicurezza e poi dell’indolenza, e poi ancora del compiacimento misto ad autocommiserazione.

Però poi decolla di nuovo, s’innaffia del sole arancione della West Coast e si ripresenta in questa perfetta forma. Dobbiamo essere noi a fidarci di lui, muovere il passo definitivo verso la sua musica, rilasciandogli un perenne lasciapassare ai nostri bisogni musicali. Magari uno di quelli formato oro-classic, sul tipo dei certificati di residenza che Donald Trump ha messo in palio per chiunque abbia cinque milioni di dollari da pagargli, per comprarsi una cittadinanza americana.

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