Lo spartitraffico delle influenze russe attorno all’Ue

Questa storia inizia in Italia, risuona negli Stati Uniti, passa per la Serbia e finisce in Russia. Basterebbe farsi trascinare dagli spostamenti di Artem Uss, quelli finora noti, per capire dove i legami di Mosca sono forti e radicati, dove il Cremlino ha le sue zone di influenza e dove lavora sulle aree grigie. Quali sono i paesi amici, paesi nemici, paesi in cui ha fondamenta profonde e paesi in cui, una spinta via l’altra, cerca di farsi strada senza chiedere il permesso. Artem Uss è un nome noto a noi, agli americani e parecchio anche ai russi. Suo padre, Aleksandr, è stato il governatore della regione di Krasnojarsk, è uno dei direttori dell’enorme azienda petrolifera statale Rosneft, amico di Igor Sechin, uno degli uomini più ricchi della Russia e più vicini a Vladimir Putin. Lui, Artem, è invece uno dei più grandi ricercati dei nostri tempi. Si dedicava ad attività di import export, fino a quando gli Stati Uniti non hanno iniziato a raccogliere prove sul ruolo di Uss e della sua società con sede in Germania che portano dritti dritti alla produzione di armi da usare contro l’Ucraina e ai materiali sanzionati che servono a produrle.

Uss contrabbandava petrolio venezuelano ed esportava in Russia tecnologia sotto sanzioni come i microchip, proprio quelli che servono per i missili balistici da lanciare contro Kyiv, per aerei e munizioni. Uss è stato arrestato in Italia, all’aeroporto di Malpensa dal quale era diretto a Istanbul, è stato messo agli arresti domiciliari mentre il tribunale di Milano esaminava la richiesta di estradizione degli americani. E il 22 marzo è scomparso. Come? Qui arrivano i cunicoli dell’emisfero russo. Secondo il Wall Street Journal, i servizi segreti russi non avrebbero partecipato direttamente all’operazione per far fuggire Uss: era ritenuto troppo rischioso. A traghettare Uss fuori dall’Italia è stata una banda di criminali serba, così hanno raccontato delle fonti al giornale americano. Il fuggitivo prezioso è stato accompagnato in Serbia usando varie auto e poi, da Belgrado si sarebbe imbarcato direttamente per Mosca.

La fuga di Uss agli americani è costata sia la possibilità di avere informazioni ulteriori sul sistema messo in piedi dal russo per aggirare le sanzioni sia una risorsa da scambiare, eventualmente, con cittadini americani arrestati in Russia, come il giornalista Evan Gershkovich. Agli italiani è costata una brutta figura internazionale e diversi dubbi da parte di Washington nei confronti dei nostri sistemi di intelligence e di giustizia. Mentre la Russia a costo zero ha festeggiato per due motivi: Uss è tornato a casa con tutto il suo carico di informazioni e, se è vero che dietro c’è l’aiuto della Serbia, ha potuto tastare il valore delle sue alleanze. Uss è una mappa, anzi, Uss è una bussola. Siamo partite da qui per capire dove la Russia si sente forte, quali sono i paesi su cui può esercitare la sua influenza per mettere in difficoltà noi europei, e quanto può davvero darci fastidio. Seguendo la rotta di Uss tracciata dal Wall Street Journal non potevamo che fare una prima tappa in Serbia.

Le guerre dei vicini. La Serbia è uno dei paesi in cui la guerra in Ucraina non ha fatto paura, anzi ha suscitato una curiosità che si è tradotta, per alcuni cittadini, in ambizione. Sui muri delle città serbe sono comparsi i disegni della faccia di Vladimir Putin, degli uomini della Wagner e di combattenti serbi che si sono uniti alle truppe di Mosca e sono morti in guerra. Nottetempo, qualcuno cancellava facce e divise. Nottetempo, qualcun altro andava a ricomporre i disegni. Le mura di una città parlano sempre e quelle di Belgrado da quindici mesi dicono: non siamo contro Mosca, al massimo siamo neutrali. I legami culturali tra la Serbia e la Russia sono antichi e si sono mantenuti finora. Agli eventi istituzionali gli inviti sono reciproci, Putin e il presidente serbo, Aleksandar Vucic, si sentono spesso. Belgrado ha un forte amore russo e una dichiarata aspirazione europea, le tendenze autocratiche di Vucic però preoccupano l’Ue e soprattutto ci sono i rapporti con il Kosovo da risolvere. La verità è che, a Belgrado, Mosca ha sempre trovato rivendicazioni da puntellare, ambizioni territoriali che non sono mai state sopite e anzi in politica si traducono spesso in un minaccia: tornerà il nostro momento. Una Serbia instabile che non riesce a trovare un punto di intesa con il Kosovo – che ritiene il “cuore della Serbia”, come ha detto Novak Djokovic – è anche un incessante grattacapo per l’Ue che invece tenta a più riprese, senza successo, di far sedere Vucic e il premier kosovaro Albin Kurti attorno allo stesso tavolo. La Russia è presente in tutto, nella cultura, negli affari, nella religione, nel comune sentirsi vittime dell’occidente. Ma l’Ue è qualcosa di più concreto, è un grande investitore in Serbia. Un esempio: quest’anno Belgrado riceverà da Bruxelles circa 600 milioni di euro per costruire la ferrovia che dalla capitale porta a Niš. E’ una cifra importante per una struttura fondamentale, che dovrà essere completata entro il 2029. Mosca non compete con queste cifre, non è in grado e neppure ci pensa, per rimanere fondamentale conta piuttosto sulle rivendicazioni serbe, sulla storia, su certi atteggiamenti che rendono Vucic vicino a Putin e spesso alleato anche a un altro leader di una zona in cui la Russia prova a esercitare la sua influenza e che, contrariamente alla Serbia, è già dentro all’Ue e punta i piedi: l’Ungheria.

In Serbia compaiono murali pro Russia, ma Bruxelles fa investimenti preziosi, come la ferrovia Belgrado-Niš

La corda ungherese. All’ultimo incontro tra i ministri degli Esteri dell’Ue, c’è stato uno scambio tra l’ungherese Péter Szijjártó e la tedesca Annalena Baerbock che i presenti hanno definito “acceso”. Si discuteva dell’undicesimo pacchetto di sanzioni, quello che prevede di individuare e fermare le aziende europee che violano le sanzioni già esistenti, e come ormai accade dal primo pacchetto l’Ungheria si opponeva. Sono quindici mesi che il governo di Viktor Orbán ha preso la guerra come una fantastica opportunità di rendere la vita impossibile ai colleghi europei e guadagnarci il più possibile. Il premier ungherese sta molto attento a non spezzare la corda, perché i soldi che arrivano da Bruxelles sono esistenziali, ma tira e tira e tira, guadagnando esenzioni e concessioni. In questa occasione in particolare, la Baerbock aveva chiesto ragguagli sulla banca ungherese Otp, che secondo Kyiv, “sponsorizza il terrorismo russo” facendo prestiti ai soldati di Putin e riconoscendo come russe le repubbliche del Donbas. Szijjártó ha negato tutto, ha risposto piccato che c’è una campagna contro Budapest da parte dell’Europa e ha riproposto il solito armamentario retorico sull’Ue cattiva e punitiva. L’ungherofobia è sorella della russofobia nel linguaggio ungherese, ma i continui veti e ostacoli posti da Budapest hanno rallentato l’azione europea e hanno quindi aiutato la Russia. Oggi il Parlamento europeo vota una risoluzione per vietare all’Ungheria di prendere la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea all’inizio del 2024 – un’iniziativa di difficile praticabilità ma che mostra quanta insofferenza ci sia nei confronti di Orbán. Il quale si presta solerte a gravitare nell’area di influenza russa, bloccando anche l’allargamento della Nato alla Svezia, ma conosce bene qual è il limite: l’alleanza degli autocrati non paga gli stipendi dei dipendenti pubblici ungheresi quanto fa l’Unione europea.

Gli F-16 di Erdogan. Ci sarà presto un incontro tra Putin e il presidente turco appena rieletto, Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato il Cremlino. Non c’è la data né il luogo dell’appuntamento, ma il presidente russo ha buoni motivi per voler celebrare la rielezione di Erdogan, che riesce a mantenere la sua aura da mediatore in quanto è ospite e controllore dell’unico accordo trovato e rinnovato con la Russia, quello sul grano, ma che è entrato nell’orbita di Mosca con fervore. Proprio come l’Ungheria, anche la Turchia, partner della Nato, sa come tenersi in bilico tra Europa e Russia, spesso attraverso i ricatti verso l’occidente, come accade con il veto all’ingresso della Svezia nell’Alleanza. Ma deve anche stare attenta a trovare un equilibrio con Putin, che ha i propri piani di influenza nella regione in cui Erdogan vorrebbe fare liberamente di testa propria. La riabilitazione del dittatore siriano Bashar el Assad, solo per fare un esempio, caldeggiata da Mosca, va di traverso al presidente turco, che fino a poco tempo fa diceva che Assad era uno dell’Isis. C’entrano i curdi naturalmente, c’entrano le mire espansionistiche di Erdogan, ma poiché gli interessi non sempre coincidono, il presidente turco a volte deve ingoiare dei bocconi indigesti. Anche in questo caso, il fatto di avere un’economia fragilissima, nonostante lo show dei contanti dati in mano agli elettori per garantirsi il loro voto, rende Erdogan meno spericolatamente filorusso di quanto forse desidera. C’è anche uno sviluppo interessante in corso: Ankara vorrebbe rinnovare la sua flotta e chiede aerei agli Stati Uniti, che mettono come condizione principale alla vendita proprio la fine del veto sulla Svezia. Se questo nodo dovesse sciogliersi, alcuni degli F-16 oggi in dotazione della Turchia potrebbero finire in Ucraina, guidati da piloti ucraini contro l’esercito di Putin.

Il pendolo del Karabakh. L’arte di Putin ed Erdogan di essere sempre su fronti opposti e non litigare mai ha molti teatri, uno in particolare ha destato di recente anche l’attenzione dell’Unione europea ed è il tormentato Nagorno-Karabakh o, in armeno Artsakh, il territorio che si trova dentro all’Azerbaigian ma è abitato in prevalenza da armeni e in cui le tensioni vanno e vengono senza placarsi mai del tutto: come un pendolo. Erevan e Baku si fanno guerra da oltre trent’anni, Mosca è sempre stata dalla parte dell’Armenia, che è anche un membro della Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, mentre la Turchia è dalla parte dell’Azerbaigian e negli ultimi scontri ha dato un aiuto determinante. Mosca ha sempre considerato tanto Erevan quanto Baku sue zone di influenza, ha preteso di essere per decenni garante delle loro labili tregue, se l’Azerbaigian ha trovato nuovi alleati, l’Armenia è rimasta legata al Cremlino e nell’ultimo anno, dall’inizio della guerra in Ucraina, sembra iniziare a pentirsene. L’Unione europea ha capito quanto dall’insoddisfazione possa nascere un nuovo mondo, ha ospitato i leader delle due nazioni a Bruxelles e si è messa al lavoro per trovare una soluzione al conflitto e un negoziato: l’Armenia vorrebbe disfarsi dell’aiuto russo e non sa come fare e l’Azerbaigian è invece un paese strategico, ricchissimo di risorse naturali e con il quale l’Unione europea ha siglato un accordo per raddoppiare le importazioni di gas entro il 2027. Bruxelles è un partner appetibile e Mosca sta smettendo di esserlo, da abilissimo dispensatore di soft power, il Cremlino ha perso il tocco in certe zone, soprattutto in quelle che meglio lo conoscono. Cerca di recuperare terreno tra chi invece lo conosce meno.

Mentre si allontanano i vicini, il Cremlino cerca nuove alleanze espandendo i Brics. Gli servono a non sembrare isolato

Il circolo dei Brics. “E’ indicativo che negli ultimi due anni, compreso il primo anno dell’operazione militare speciale in Ucraina, il numero di paesi che vogliono aderire ai Brics e all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) sia aumentato notevolmente: ora sono circa due dozzine”, aveva detto a febbraio il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, celebrando il fatto che il tentativo, che lui considera pretestuoso, dell’occidente di isolare Mosca non stesse affatto funzionando. L’acronimo dei Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – è stato inventato dall’economista Jim O’Neill nel 2001, ma è dal 2009 che questi paesi sono diventati un blocco geopolitico (la “s” di Sudafrica è stata aggiunta nel 2011) e dal 2014 hanno iniziato ad avere una strategia più esplicitamente anti occidentale: solo così la Russia poteva continuare ad avere la sua alleanza di riferimento, dopo essere stata espulsa dal G8 in seguito all’annessione della Crimea. In quell’anno i Brics hanno anche fondato la New Development Bank, che è di fatto un’alternativa al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, e che ha accolto come suoi partner, dal 2017 in poi, Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, Uruguay ed Egitto. Nel giugno dello scorso anno, sempre su iniziativa di Mosca che utilizza i Brics come uno strumento di sua proprietà – finché è dentro al Consiglio di sicurezza dell’Onu non ne avrebbe poi così bisogno – e a guerra in Ucraina già avviata, è iniziata la campagna per reclutare nuovi paesi, per contrastare l’iniziativa anti neutralità di Europa e Stati Uniti. Ma se l’occidente cerca alleati basandosi sulla condivisione dei valori liberali, la Russia interpreta i Brics come una specie di vassallaggio agli interessi russi. Sono arrivate – secondo fonti sudafricane – le richieste formali di adesione di Iran e Argentina, mentre Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno espresso “un desiderio” di adesione. Mosca tesse la sua tela attraverso i Brics, lavorando sui paesi che hanno anche accordi con l’Unione europea, in modo da cementare da una parte i leader amici – il brasiliano Lula sta dando notevoli gioie al Cremlino – e dall’altra costringere, con armi e anche con le riserve di grano, paesi considerati conquistabili.

Il risultato netto è difficile da stabilire, ma certo l’offensiva russa è molto più insistente e capillare rispetto a quella europea. La gratitudine è altrettanto grande: il Sudafrica è disposto a concedere l’immunità a Putin pur di averlo in presenza al quindicesimo vertice di fine agosto dei Brics a Johannesburg, nonostante sia membro del Tribunale penale internazionale che ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo. Il Cremlino ha fatto sapere che la Russia sarà “adeguatamente rappresentata” al vertice, quindi forse Putin ci andrà (anche se molti continuano a dire che sarà Lavrov l’ospite russo): Mosca si aspetta che gli alleati dei Brics “non siano guidati” da “decisioni illegittime”. Per orientarsi nel traffico di influenze di Putin, la bussola sono sempre le minacce.

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