“Amata” è un romanzo che nasce dalla rabbia di Ilaria Bernardini per una cronaca che rivela così spiccatamente una società ottusa, maschilista e violenta, ma solo la rabbia non aiuterebbe a dare forma a una storia e a farne letteratura
Due volontà e due bisogni, due necessità e due desideri attraversano, muovono e determinano la vita di due donne: Nunzia e Maddalena. Due modi diversi eppure connessi strettamente l’uno all’altro di essere donna. Non classificabili perché segnati da motivi ed esigenze che determinano infinite possibilità e sfumature. Due scelte infine non giudicabili e che invece vengono giudicate da una società reazionaria e patriarcale, che pensa di avere il diritto di farlo e di farlo senza alcuna considerazione. Una violazione del diritto e del corpo delle donne e anche di ogni regola data e – almeno così dovrebbe essere – condivisa.
Ilaria Bernardini ha preso spunto da un fatto di cronaca, l’affido anonimo di un neonato in una Culla per la Vita avvenuto nel 2023 a Milano. Lo scatenarsi assurdo di un pubblico appello rivolto alla madre a ritornare sui suoi passi, perché è impossibile scegliere liberamente di abbandonare (in questo caso affidare anonimamente come prevede la legge) un bambino nella ricca Lombardia. Ci devono per forza essere dei motivi pratici, probabilmente economici. Nulla che prenda in considerazione la madre, ovviamente, e nulla che prenda in considerazione il neonato. “Amata” (Haper Collins) è un romanzo che nasce dalla rabbia di Ilaria Bernardini per una cronaca che rivela così spiccatamente una società ottusa, maschilista e violenta, ma solo la rabbia non aiuterebbe a dare forma a una storia e a farne letteratura. E così Amata vive anche della presa di coscienza della storia famigliare dell’autrice che vede coinvolti i bisnonni, entrambi NN ovvero: nomen nescio.
In particolare Gaudenzio, detto nonno Denci, affidato a fine Ottocento a una Ruota degli Esposti, a cui il romanzo è dedicato. Ilaria Bernardini da voce a due donne, due storie parallele, quella di Nunzia arrivata dalla Sicilia per studiare e affrontare gli studi classici che da sempre hanno appassionato suo padre, scomparso e che le manca sempre di più. La sua è una vita da universitaria tra ristrettezze economiche (Milano come sempre), lezioni, incontri con gli amici e qualche storia d’amore e di sesso. Fino a quando si accorge di essere incinta e qui inizia un percorso di accettazione tra ansia e angoscia. E poi c’è la storia di Maddalena che si è emancipata dalla sua condizione entrando nella buona borghesia di Milano. Fidanzata con un violinista della Scala, Maddalena si è laureata in ingegneria. Unica donna tra molti uomini è da sempre abituata a una lotta da combattersi in solitaria. Maddalena ha quasi quarant’anni e le possibilità di diventare madre e di restare incinta sembrano giorno dopo giorno, nonostante i molti tentativi fatti, sempre più vicine allo zero. Il dolore diviene per lei sempre più grande
Sia Nunzia sia Maddalena inseguono in solitudine i loro desideri, mai pienamente compresi dai loro compagni. Dall’immaturo quanto sguarnito Ahmed così come dal marito di Maddalena che non sembra in grado d’includere quel bisogno di maternità nel suo rapporto con la moglie, ma anzi lo vive come un fatto accessorio, un elemento aggiuntivo, di cui in fondo si può anche fare a meno. Amata, che dal 16 ottobre arriverà anche al cinema per la regia di Elisa Amoruso, con l’interpretazione di Miriam Leone, Tecla Insolia e Stefano Accorsi, mostra una tensione obbligata tra desiderio e rabbia, là dove il desiderio nasce da dentro, dal profondo di un’identità femminile inseguita e ricercata, mentre la rabbia vive in un’esterno vincolato da un maschilismo a tratti ottuso a tratti squadrista. Far vivere quella parte interna, darne la luce e imparare a farne finalmente parte significa dare corpo e sostanza a quella parola, amata, troppo spesso trasfigurata e violata.