Walter Benjamin interpretava la storia come catastrofe dei vinti. Questa prospettiva ha assunto caratteri dominanti nei momenti peggiori della cancel culture, al cui centro vi era l’idea che il passato andava interamente riscattato attraverso la sua riscrittura
Nel nostro tempo il racconto della storia (lo studio è un’altra cosa) è forse il punto centrale della cultura di largo consumo. E questo va dai libri divulgativi a, soprattutto, video e podcast. Non si tratta di un’attenzione per il fatto minuzioso, per lo studio approfondito, ovvio. E’ piuttosto un surrogato della fantasia, della letteratura e dell’ideologia. Tutte messe assieme. E’ quindi un modo per intrattenersi ma, allo stesso tempo, un modo per credere di poter avere un proprio punto di vista informato non su un tema specifico ma sulla “storia universale”. La passione per la storia un tempo era un tipico passatempo borghese. Letture non troppo impegnative ma molto informative, con la percezione di non avere sprecato il proprio pomeriggio domenicale né dietro a romanzi e romanzetti, né dietro a effimere astruserie filosofiche. Oggi è un passatempo per tutti e per nessuno, nel senso che il suo racconto, spesso breve, ridotto a slogan di un minuto o poco più, accompagna le nostre giornate e ci illudiamo fornisca una visione sull’intero mondo.
Nel momento in cui il racconto storico diviene così dominante fino a essere, inevitabilmente, strumento di lotta politica, c’è da chiedersi: chi domina il racconto storico? O ancora, per dirla in modo alto, quale è il paradigma interpretativo dominante? La prospettiva alla base dell’odierna divulgazione storica mi sembra possa essere riassunta in quanto scrive Walter Benjamin nella Settima delle sue Tesi di filosofia della storia “I padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto […] La preda è trascinata nel trionfo. Essa è designata con l’espressione ‘patrimonio culturale’ […] Poiché tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore”. Attraverso queste righe fondamentali si comprende subito come la storia per Benjamin (e qui in particolare il filosofo volge lo sguardo contro quello storicismo secondo cui tutto ciò che accade, tutto ciò che reale è razionale e quindi “bene”) sia di per sé ostaggio di coloro che hanno vinto, dei “padroni” contro gli oppressi. Qui, però, non è in ballo tanto il marxismo o il materialismo storico, ossia un percorso in cui comunque alla fine, a causa delle leggi storiche, il sol dell’avvenire sorgerà e il proletariato vincerà la sua guerra. Qui c’è in ballo qualcosa di molto più radicale.
L’idea che soggiace al pensiero di Benjamin è che la storia in sé, ossia l’insieme degli eventi generati dagli uomini che vivono e agiscono nel tempo, non è altro che morte e distruzione. Nella Nona tesi, notoriamente, Benjamin parla dell’angelo di un dipinto di Paul Klee, l’Angelus Novus, che “ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede solo una catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine”. La storia umana, allora, è solo una catastrofe senza senso, un orrore senza fine destinato a ripetersi senza nessuna possibilità di progresso reale. Solo un messia, da un momento all’altro, e non in virtù di una qualche progressione storica ma come “evento improvviso”, potrà salvarci da tale catastrofe. Il messia, infatti, distrugge la storia. Tutto ciò che si può fare di buono, nell’attesa del redentore, è occuparsi ossessivamente delle sofferenze del passato, e così provare a riscattarle cercando di creare meno “nuova storia” possibile, perché la storia è di per sé sofferenza e catastrofe.
Si può quindi dire che il campo dello studio storico appare come una battaglia vinta da Benjamin. Questa sua prospettiva è la prospettiva interpretativa dominante, non a livello storiografico ma a livello spirituale. E’ il suo sguardo che illumina la storia, mostrandola così come lui la vedeva. Il futuro viene visto come nulla di diverso da “un cumulo di rovine” che sale davanti noi. L’aspetto paradossale, però, è che Benjamin, “vincendo” la battaglia per l’interpretazione della storia attraverso queste sue tesi, ossia interpretando la storia come catastrofe dei vinti, diviene egli stesso vincitore. Vincitore attraverso i vinti. Una tale prospettiva ha assunto caratteri macroscopicamente dominanti nei momenti peggiori della cancel culture, al cui centro vi era l’idea che il passato, macerie dei vinti, andava interamente riscattato attraverso la sua riscrittura. Risprofondando, e facendo risprofondare, l’intera cultura occidentale nel passato del dolore che aveva generato nelle “minoranze sconfitte”. Rimuovendo e cancellando così tutto quanto di buono era stato fatto. Perché nulla di buono vi era, in quanto tutto era sorto e concimato dalle spoglie innumerevoli degli oppressi sui cui corpi era stata costruita la trionfante storia dei vincitori.
Rimossa la parte più folkloristica e demenziale della cancel culture, il paradigma interpretativo resta immutato con tutta la sua potenza (lo vediamo più che mai in azione oggi nel conflitto tra Israele e Hamas). Questa lettura della storia appare come un cul de sac tanto teoretico quanto emotivo da cui appare difficile, se non impossibile, uscire. Tanto più perché questa relazione emotiva con la storia è facile, diretta, seducente. E maggiore è la sua diffusione, maggiore è la difficoltà a poterla rivoltare. A ben guardare, la battaglia per la storia, e quindi ovviamente anche per il presente, appare una battaglia persa.