Nel medio oriente in subbuglio l’ex jihadista al Sharaa tratta con Israele

Smilitarizzare il sud della Siria e tenere aperti i cieli contro l’Iran. Netanyahu e Damasco trattano, con la mediazione americana

Mentre il mondo arabo serra i ranghi nel condannare l’attacco israeliano a Doha e l’avanzata su Gaza City, succede che la Siria governata da un ex jihadista intensifica i colloqui diplomatici con lo stato ebraico. In questi giorni, delegazioni siriane e israeliane di alto livello si sono incontrate più volte per concludere un accordo di sicurezza che stabilizzi il fronte meridionale della Siria. Il tutto con la benedizione dell’Amministrazione Trump, che brama di fare da arbitro a un’intesa che sarebbe storica, considerato il contesto turbolento nella regione. Mercoledì a Londra si sono visti il ministro per gli Affari strategici di Israele, Ron Dermer, e il ministro degli Esteri della Siria, Asaad al Shaibani, una riunione inimmaginabile solo fino a qualche mese fa. Con loro c’era l’ambasciatore americano Tom Barrack e le due parti hanno compiuto altri passi avanti nelle trattative, come ha confermato lo stesso presidente siriano, Ahmed al Sharaa.

L’accordo è “necessario”, ha detto al Sharaa, e potrebbe essere concluso “nei prossimi giorni”. Il piano è di dividere il sud della Siria in tre zone, ciascuna con un diverso livello di dispiegamento militare consentito alle forze di Damasco. Sul modello degli accordi di Camp David del ’79 con l’Egitto, Israele punta a ridurre ai minimi termini la presenza dei militari siriani a ridosso della frontiera del Golan. Damasco si impegna a non inviare armi pesanti e a mantenere aperto un corridoio aereo necessario a permettere ai caccia israeliani di sorvolare il paese e di condurre raid contro l’Iran, come è già avvenuto lo scorso giugno.

Israele in cambio si ritirerebbe dai territori occupati lungo la frontiera sud a partire dall’8 dicembre dello scorso anno. La restituzione alla Siria di questa zona cuscinetto di circa 1.500 chilometri quadrati è un elemento chiave perché, per Damasco, le incursioni di terra condotte da Tsahal sono ingiustificate e condotte con l’uso della forza contro i residenti delle province di Quneitra e Daraa. Al Sharaa però ha messo dei paletti e ha dichiarato che preferirebbe tornare all’accordo del ’74, siglato dopo la guerra dello Yom Kippur e che prevedeva il dispiegamento di una forza di pace internazionale per monitorare la zona demilitarizzata tra i due paesi. Altro oggetto da discutere è il monte Hermon, dove gli israeliani hanno installato postazioni militari che non intendono smantellare, nonostante l’obiezione dei siriani.

Al Sharaa ha chiarito che è prematuro ogni discorso riguardo alla normalizzazione o alla firma di un accordo di pace – Israele e Siria sono in stato di guerra dal 1948 – placando per ora gli entusiasmi iniziali degli americani che auspicavano un’intesa rapida e ancora più grande tra i due paesi. Il cammino potrebbe essere invece più impervio, anche perché l’accordo per la sicurezza del sud rischia di rivelarsi più fragile di quanto non sembri. La prima ragione è l’incognita di Suwayda. Dopo gli scontri fra il governo centrale sostenuto dai beduini e i drusi, che nella città sono la maggioranza, la situazione si è assestata con un cessate il fuoco e il controllo affidato di fatto alle milizie locali di Hikmat al Hijri. Il leader spirituale druso resta il vero elemento imponderabile della questione e tutti, americani compresi, sanno che la stabilizzazione della provincia passa dalle sue scelte, dalla sua volontà di riconoscere una qualche autorità al governo di Damasco e dalla sua intenzione di continuare a flirtare o meno con Israele, che a sua volta accoglie nel Golan occupato una nutrita comunità drusa. Martedì scorso a Damasco gli americani avevano mediato la firma di una road map per una soluzione pacifica della contesa su Suwayda. Il ministro siriano al Shaibani e Ayman Safadi, ministro degli Esteri della Giordania, il cui confine si affaccia sulla provincia del sud della Siria, si erano accordati per la creazione di un consiglio locale che rappresentasse tutti gli esponenti religiosi e tribali della provincia. Ma dopo poche ore al Hijri ha diffuso un comunicato con cui ha rifiutato qualsiasi accordo. I drusi, ha obiettato, non vogliono che siano le autorità di Damasco a stabilire le colpe sugli scontri di questi mesi, che hanno portato ai massacri su base settaria di circa 250 residenti. Con questi presupposti, Sharaa teme che l’accordo di sicurezza con Israele finisca per legargli le mani impedendogli di dislocare nella città le forze militari necessarie nel caso in cui Suwayda in futuro tornasse a sollevarsi contro Damasco. “Quando una nazione resta unita, la sua forza cresce, ma quando si divide il suo potere si dissolve”, ha ripetuto il presidente nel weekend al summit arabo-islamico di Doha. Un assunto messo in discussione se si guarda la situazione sul terreno in Siria.

Al di là delle ragioni interne alla Siria, c’è il contesto regionale che è insidioso per qualsiasi trattativa fra un paese arabo e Israele. L’offensiva su Gaza City potrebbe avere effetti dirompenti. Mentre l’Egitto protesta e definisce Israele come “uno stato nemico” – per la prima volta dai tempi di Sadat –, il Golfo annuncia ripercussioni e l’Arabia Saudita sigla un accordo di mutua difesa con il Pakistan avvertendo gli Stati Uniti che non sono più un partner affidabile, visto il silenzio dopo l’attacco di Doha, ecco che un presidente ex membro di al Qaida e Stato islamico decide invece di negoziare con Israele. L’ambizione di al Sharaa è di presentarsi al mondo, per l’Assemblea dell’Onu della settimana prossima a New York, come volto moderato di un medio oriente in subbuglio. Al summit di Doha nel weekend scorso, dopo l’attacco israeliano, al Sharaa ha espresso la sua solidarietà al Qatar, che è uno dei suoi principali sponsor. Non è chiaro come l’emiro al Thani accolga ora l’avanzare dei negoziati fra il suo protetto al Sharaa e Benjamin Netanyahu. Probabilmente, come un male necessario.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare “Morosini”. Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.

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