Il fiscal drag: la tassa occulta che va abolita

Anziché tagliare il secondo scaglione Irpef dal 35% al 33%, con le stesse risorse, il governo può eliminare definitivamente il drenaggio fiscale. Altrimenti l’inflazione continuerà a far pagare più tasse, senza un reale aumento dei redditi

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha confermato che uno dei cardini della prossima legge di Bilancio è la riduzione delle tasse per il ceto medio. La proposta sul tavolo, sostenuta da Forza Italia da molto tempo e finora rimandata per scarsità di risorse, è il taglio dell’aliquota del secondo scaglione Irpef dal 35 al 33 per cento, con allargamento dello scaglio ne fino a 60 mila euro. Costo dell’operazione: 4 miliardi circa. L’intervento è pienamente giustificato dal fatto che la riforma fiscale del governo Meloni ha reso l’Irpef più progressiva avvantaggiando i redditi-medio bassi, mentre quelli medio-alti hanno subìto un aumento della pressione fiscale a causa dell’inflazione. Il taglio sarebbe, quindi, una restituzione parziale del maltolto via fiscal drag. Ma il governo potrebbe usare le stesse risorse per una riforma più strutturale: eliminare il fiscal drag. Il fiscal drag (o drenaggio fiscale) è l’aumento delle imposte dovuto all’interazione tra inflazione e aliquote progressive: se il sistema fiscale non è indicizzato, ovvero se gli scaglioni Irpef non vengono adeguati all’inflazione, il contribuente viene automaticamente spinto verso scaglioni impositivi più elevati. In pratica subisce un aumento della pressione fiscale senza aver beneficiato di un reale aumento del reddito. La questione è tornata di attualità negli ultimi anni di forte inflazione, che ha amplificato questo effetto: l’inflazione cumulata del 17 per cento, secondo i calcoli effettuati dagli economisti Marco Leonardi e Leonzio Rizzo sul Foglio, continua a garantire al Tesoro circa 25 miliardi di euro annui di drenaggio fiscale. Si potrebbe pensare, ora che l’inflazione è tornata a livelli ordinari sotto il 2 per cento, che si tratti di un problema del passato. Ma non è così: è un probelma attuale e futuro. Per due ragioni.




In primo luogo, perché il fiscal drag, sebbene meno intenso, continua a esistere e ad accumularsi nel tempo. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), l’anno scorso, ha prodotto un’analisi sull’evoluzione della tassazione sulle famiglie italiane: il risultato è che dal 2014 al 2024 il fiscal drag si è mangiato tutti i tagli delle tasse, dal bonus 80 euro di Renzi alla riforma dell’Irpef di Draghi. “A parità di potere d’acquisto – scrive l’Upb – nel 2024 i lavoratori dipendenti pagano aliquote medie generalmente superiori a quelle che si pagavano nel 2014”: più precisamente da 321 euro (per un lavoratore con 10 mila euro di reddito) a 1.020 euro (100 mila euro di reddito) in più di Irpef rispetto a dieci anni prima. In pratica, mentre con una mano i governi restituivano soldi ai contribuenti tagliando l’aliquota Irpef, con l’altra se ne prendevano di più attraverso il fiscal drag non adeguando gli scaglioni all’inflazione.




La seconda ragione è che, a parità di inflazione, la riforma fiscale del governo Meloni ha reso più progressivo il sistema fiscale: questo, se da un lato ha avvantaggiato i redditi più bassi proteggendoli dall’inflazione, dall’altro ha amplificato il drenaggio fiscale. Ciò vuol dire che i vantaggi della riforma svaniranno più rapidamente. Sempre l’Upb, pochi mesi fa, ha quantificato l’aumento del prelievo da fiscal drag in 370 milioni annui: da circa 2,9 miliardi a quasi 3,3 miliardi, considerando un’inflazione al 2 per cento.




E’ pertanto questo, 3,3 miliardi, il costo dell’eliminazione del fiscal drag attraverso l’indicizzazione degli scaglioni Irpef. Si tratta di una riforma che sul piano politico riscontrerebbe un consenso trasversale, dato che contro il fiscal drag in questi mesi si sono espressi sia le opposizioni sia i sindacati (in testa Maurizio Landini della Cgil), ma che comporterebbe un salto di qualità nel rapporto tra cittadini e contribuenti. In primo luogo, si affermerebbe il principio che un aumento delle tasse può avvenire attraverso una legge votata dal Parlamento e non come effetto occulto dell’inflazione. Nel mondo ci sono diversi paesi che prevedono un’indicizzazione automatica degli scaglioni, dagli Stati Uniti al Canada, dalla Danimarca all’Austria. E ci sono tanti altri paesi che prevedono un’indicizzazione periodica dell’imposta sui redditi, anche se non attraverso un meccanismo automatico (Belgio, Francia, Germania, Svezia). L’Italia potrebbe allinearsi ai paesi fiscalmente più civili. Per giunta, il nostro paese metterebbe fine a una asimmetria. Secondo un recente studio dell’Fmi, l’Italia è infatti il paese al mondo con il più alto tasso di indicizzazione della propria spesa pubblica (a causa dell’elevato peso della spesa pensionistica e assistenziale). Lo stato italiano quindi adegua le uscite all’inflazione ma non le entrate, producendo un sistema che tende meccanicamente all’espansione del bilancio.



L’abolizione del drenaggio fiscale forse non sarà una misura popolare come il taglio delle aliquote dell’Irpef, ma rappresenta un patto di correttezza e trasparenza attraverso cui lo stato promette ai contribuenti di non rubare continuamente una fetta maggiore del loro reddito sfruttando l’inflazione. Giorgetti e Meloni potranno ridurre le aliquote Irpef se troveranno ulteriori risorse, ma in tal caso offrendo la garanzia che il taglio delle tasse di oggi non verrà progressivamente eroso domani.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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