Trump fa causa al New York Times. Come è andata con gli altri media

Nella querela di 85 pagine, depositata presso un tribunale della Florida, si legge che i reportage sarebbero stati effettuati con “dolo intenzionale”, causando al presidente “ingenti perdite economiche”. Il Nyt ha fatto sapere che ritiene che la causa non sia fondata su alcun fatto

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha citato in giudizio il New York Times per diffamazione, chiedendo 15 miliardi di dollari come risarcimento per una copertura, a suo dire, scorretta e non obiettiva della sua persona. Già la scorsa settimana, il giornale aveva riportato di essere stato minacciato dalla Casa Bianca per la copertura data al caso Epstein, per cui Trump aveva già citato in giudizio il Wall Street Journal, in una causa ancora in corso. Il tycoon ha accusato il quotidiano in un post sul social di sua proprietà, Truth, di essere “un organo di propaganda del Partito democratico, che dice da decenni bugie su di me, la mia famiglia, i miei affari e il movimento Maga”. Oltre al quotidiano, sono citati direttamente quattro giornalisti: due di essi, Susan Craig e Russ Buettner, hanno scritto un libro uscito l’anno scorso, “Lucky Loser”, sull’impero finanziario di Trump e sui suoi fallimenti economici, dal presidente definito falso e diffamatorio.

Nella querela di 85 pagine, depositata presso un tribunale della Florida, si legge che i reportage sarebbero stati effettuati con “dolo intenzionale”, causando al presidente “ingenti perdite economiche”. Alcuni passaggi del documento sembrano più vicini a una pubblicità televisiva che a una causa legale, come quando vengono citati “centinaia di grandissimi ruoli mediatici del presidente”, come la sua apparizione nel secondo film della saga di “Mamma ho perso l’aereo”. Il New York Times ha fatto sapere che ritiene che la causa non sia fondata su alcun fatto, mancante di qualsiasi legittimità legale e utilizzata dal presidente con il solo scopo di scoraggiare il lavoro della redazione. Non è la prima volta che Trump cita in giudizio il quotidiano di New York. Lo aveva già fatto nel 2020, per un editoriale che legava la sua campagna elettorale del 2016 al governo russo, e l’anno successivo per aver ottenuto, a suo dire in modo illegale, documenti riguardanti le sue dichiarazioni dei redditi. Nessuna delle due ha avuto successo.

Il clima nel mondo dell’informazione, però, è cambiato rispetto a quattro anni fa. Da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha utilizzato sempre più spesso i tribunali per colpire i media indipendenti: una guerra personale contro la stampa, considerata ostile e parte del “deep state” liberal, combattuta con querele e successivi patteggiamenti, come già accaduto a due colossi come Abc e Cbs. Lo schema è simile: la richiesta di una somma miliardaria per via di una presunta copertura diffamatoria, che avvocati indipendenti ritengono senza basi fondate. Entrambe le reti hanno scelto, però, di patteggiare, nonostante le possibilità di vittoria in tribunale, per evitare ritorsioni. In particolar modo, la Cbs, citata in giudizio perché avrebbe editato in modo tendenzioso una risposta dell’allora candidata alla Casa Bianca Kamala Harris durante un’intervista, ha preferito questa strada per paura che la Federal Communications Commission (FCC), in teoria organismo indipendente ma di fatto controllata da Brendan Carr, uomo vicino a Trump, non approvasse una fusione tra Paramount, del cui gruppo Cbs è parte, e Skydance Media. Oltre a questo, parte dell’accordo prevedeva l’assunzione di un ombudsman per monitorare i reclami su possibili bias nelle notizie: è stato scelto Kenneth Weinstein, già presidente del think tank conservatore Hudson Institute e nominato nel 2020 da Trump ambasciatore in Giappone, anche se non ottenne mai il posto. A fusione approvata, il capo del neonato gruppo è diventato David Ellison, figlio del fondatore di Oracle Larry Ellison, da sempre sostenitore di Trump.

Nello stesso periodo in cui la rete ha scelto di patteggiare, ha anche deciso di non rinnovare il contratto a Stephen Colbert, il cui “Late Show”, erede del famoso programma di David Letterman, chiuderà alla fine di questa stagione. Sono state addotte principalmente motivazioni finanziarie: è vero che si tratta di un format costoso, reso economicamente florido dall’ingente ricavo pubblicitario, oggi dimezzato. E’ anche vero, però, che Colbert ha sempre assunto una posizione critica nei confronti di Trump, e ha definito in diretta televisiva il patteggiamento della rete “una grande tangente”. E’ improbabile che il New York Times ceda alle richieste dell’Amministrazione, ma, come ha detto Joel Simon, direttore della Journalism Protection Initiative, al Guardian, “si tratta di un’escalation allarmante, ma non inaspettata, che ha lo scopo di minare il ruolo dei media come istituzione indipendente e critica”.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.