L’Italia finora ha trovato una terza via. Il posizionamento c’è, è corretto. Se al posizionamento venisse poi aggiunta anche una qualche forma di iniziativa creativa per trasformare il tesoretto di buon senso in un capitale diplomatico sarebbe un passo in avanti niente male
La tragica guerra difensiva che dal 7 ottobre del 2023 Israele sta portando avanti in modo inevitabilmente sproporzionato contro i terroristi che hanno minacciato la sua stessa esistenza su sette differenti fronti militari – Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Iraq, Yemen e Iran – ha costretto molti storici alleati e amici di Israele a fare i conti con un problema insieme politico, culturale ed elettorale che grosso modo potremmo sintetizzare così: come si fa a trovare un equilibrio sul medio oriente tale da non rimuovere le cause reali del conflitto, tale da non derogare mai alla difesa di Israele, tale da non chiudere gli occhi rispetto al dramma di Gaza, tale da non assecondare nella difesa dei civili innocenti morti nella guerra un sentimento di odio nei confronti del popolo ebraico?
Molti paesi europei, alla prova dello stress test della guerra in medio oriente, sono riusciti solo per pochi mesi a governare i comprensibili sentimenti isterici prodotti nell’opinione pubblica dalla guerra di Israele. Alcuni paesi, come la Spagna, hanno sposato la causa palestinese anche a costo di non parlare più di Hamas. Alcuni paesi, come il Regno Unito, hanno sposato la causa del riconoscimento unilaterale dello stato palestinese prescindendo dal necessario disarmo di Hamas. Altri paesi, come la Francia, hanno scelto di sfidare apertamente e politicamente Netanyahu, entrando in conflitto politico con il presidente israeliano. Altri paesi, come il Belgio e l’Irlanda, hanno scelto di votare all’Onu anche testi pro palestinesi molto penalizzanti per Israele. In Europa, però, ci sono due eccezioni positive, due esempi di equilibrio, che riguardano la Germania e l’Italia: due paesi che per forza di cose, anche a causa di un passato totalitario che pesa come un macigno sulle spalle quando si parla di popolo ebraico, almeno finora hanno mostrato un senso di responsabilità e un coraggio fuori dal comune rispetto ai temi legati al medio oriente, riuscendo a mettere in piedi una politica estera su questi temi non scontata e non così diffusa e così riassumibile: nessuna ambiguità su chi sia in questa guerra l’aggressore e chi l’aggredito, critiche all’operato di Netanyahu senza demonizzazioni di Israele, vicinanza al popolo palestinese senza cedimenti a Hamas, richieste di tregua senza rimozione del dramma degli ostaggi, denuncia chiara delle responsabilità iraniane nella destabilizzazione del medio oriente, tolleranza attiva rispetto alle operazioni antiterrorismo portate avanti da Israele contro le milizie terroristiche in Libano, in Iran, nello Yemen, in Iraq, in Siria, sensibilità contro l’antisemitismo senza considerare la denuncia dell’odio contro gli ebrei nel mondo come una distrazione rispetto al dramma di Gaza, apertura sul riconoscimento dello stato palestinese senza anteporre però al riconoscimento il disarmo di Hamas, la restituzione degli ostaggi e l’avvio di un percorso di pace da mettere nelle mani più dei paesi arabi che nelle mani dei teorici della riviera a cinque stelle di Gaza.
I fatti di ieri, naturalmente, con l’ingresso dell’Idf a Gaza City, con un’operazione modello Falluja, l’operazione militare terrestre e urbana più importante della storia recente dell’esercito americano, operazione che sta avvenendo attorno a una città che ospita il doppio degli abitanti che aveva Falluja, 800 mila contro 400 mila, spingerà l’Italia, secondo quanto apprende il Foglio, ad aggiungere al suo equilibrio un tassello ulteriore, un tassello diplomatico, attraverso il quale mostrare dissenso nei confronti delle mosse dell’esercito israeliano e delle sue azioni su Gaza City. Operazione brutale, naturalmente, probabilmente finalizzata a mettere alle strette i terroristi e costringere Hamas a trovare un accordo, ma di fronte alla quale la comunità internazionale, per tutelare se stessa davanti alla crescita del dissenso nei confronti di Israele, potrebbe scegliere di assecondare le richieste europeiste di procedere a una qualche forma di sanzione soft: niente embargo totale, stop ad alcune parti dell’accordo commerciale con Israele, misure mirate contro ministri estremisti, sospensione di fondi bilaterali (non quelli alla società civile). Cercare un equilibrio in Europa per stare dalla parte di Israele senza stare dalla parte dell’estremismo e per stare dalla parte dei civili palestinesi senza stare dalla parte del terrorismo non è semplice. L’Italia, muovendosi in modo simmetrico con la Germania, finora ha trovato una terza via. Il posizionamento c’è, è corretto, è saggio. Se al posizionamento venisse poi aggiunta anche una qualche forma di iniziativa creativa per trasformare il tesoretto di buon senso in un capitale diplomatico sarebbe un passo in avanti niente male. L’iniziativa non c’è, e se c’è è ben nascosta. Il buon senso sì, e almeno di questo, di fronte alla tragedia del medio oriente che ha spinto molti governi europei a rincorrere l’estremismo, forse ci si può rallegrare.