Un generale che sbandiera libertà ma semina divisione, una Lega che tace e applaude: la deriva di un partito che scambia la provocazione per politica e il caos per identità
La Lega di Salvini ha deciso di affidare la propria identità a un uomo che della parola “libertà” fa un travestimento: Roberto Vannacci. A Firenze, davanti a una platea costruita su misura, ha avuto la sfacciataggine di dire che “la violenza è sempre a sinistra” . Una frase che, da sola, basterebbe a squalificare qualsiasi leader politico serio. Ma che diventa intollerabile se pronunciata da chi pretende di incarnare valori patriottici e militari.
Il punto non è Vannacci: lui è solo un personaggio cresciuto a colpi di slogan, convinto che la provocazione sia un’arma politica. Il punto è la Lega, incapace di dirgli quello che chiunque dotato di decenza dovrebbe dirgli in faccia: che il suo linguaggio è un insulto all’intelligenza degli italiani, che la sua idea di libertà è il diritto di offendere, che la sua retorica muscolare è in realtà una forma di violenza verbale. Perché dire che “la violenza è sempre a sinistra” non è un’opinione: è un atto violento in sé. Significa cancellare le aggressioni neofasciste, negare la storia, rovesciare la realtà. E’ la stessa operazione con cui i regimi costruiscono nemici immaginari per alimentare odio e paura. E Salvini, invece di prendere le distanze, applaude e rilancia: “Roberto è un contributo in più per la Lega” . Un contributo a cosa? Alla delegittimazione dell’avversario politico, alla trasformazione della competizione democratica in un campo di battaglia personale, alla riduzione della politica a ring. Se la Lega fosse un partito coraggioso, direbbe che Vannacci non porta voti, porta solo macerie: la maceria di una destra che rinuncia al governo reale dei problemi per alimentare un perenne stato di guerra culturale. La destra italiana non è nuova a leader che cercano consenso a colpi di slogan, ma raramente aveva scelto di identificarsi con una caricatura così estrema. Vannacci non arricchisce il dibattito pubblico, lo impoverisce: riduce questioni complesse a urla da comizio. E’ il contrario di quella responsabilità che un partito di governo dovrebbe esercitare. E più la Lega lo esalta, più dimostra di non avere un progetto politico, ma solo un bisogno di sopravvivenza elettorale. In questo senso, Vannacci non è un alleato: è uno specchio impietoso della debolezza del suo stesso partito.
I leghisti tacciono, si adeguano, sorridono nelle foto. Ma dentro sanno che l’“impostore della libertà” li sta logorando. Lo sanno i militanti che hanno visto le liste stravolte per piazzare i fedelissimi del generale. Lo sanno i dirigenti messi all’angolo. Lo sanno quelli che hanno ancora un briciolo di cultura politica e che vedono il Carroccio ridotto a un teatrino di frasi fatte.
Il paradosso è che Vannacci predica ordine ma semina caos. Predica disciplina ma pratica l’arbitrio. Predica orgoglio nazionale ma lo piega alla caricatura. E lo fa con l’arroganza di chi crede che basti l’uniforme del passato a legittimare il disprezzo del presente. Chiunque abbia militato nella Lega prima della “vannaccizzazione” dovrebbe trovare il coraggio di dirlo chiaro: il generale non difende la libertà, la insulta. Non difende la democrazia, la avvelena. Non difende il popolo, lo inganna.
La verità è semplice: la violenza di Vannacci è una violenza che non alza le mani, ma usa le parole come manganelli. E il silenzio complice dei leghisti è la conferma che la sua presenza non è un incidente, è una scelta. Una scelta che segna la resa della politica al culto dell’impostore.