La corsa bloccata anche a Madrid dai pro pal diventa uno spot per Sánchez (che loda i manifestanti). Il rischio è che il ciclismo possa subire i contraccolpi delle proteste spagnole
Nei giorni scorsi, commentando le proteste dei manifestanti a favore della causa palestinese che hanno, più volte, bloccato la Vuelta a España, c’è stato chi si è stupito. Tipo Mikel Uriarte, ultras dell’Athletic Bilbao: “Non ho mai visto la Guardia Civil così gentile. Sono andato all’ospedale per molto meno”. Mikel Uriarte è stato negli anni Ottanta anche tra i volti dell’indipendentismo basco, uno capace, col suo pacifismo non violento, di essere mal visto sia dai governi centrali sia dai leader politici indipendenti baschi.
Nelle ultime tre settimane, i corridori della Vuelta a España sono stati fermati più volte da chi esprimeva vicinanza alla popolazione palestinese. I manifestanti hanno intonato cori, fatto sventolare bandiere, gettato puntine da disegno sull’asfalto, bloccato le strade, hanno fatto accorciare le tappe. Qualche corridore è pure caduto. Domenica, si sono dati appuntamento a Madrid in quasi centomila con lo scopo di bloccare l’ultima tappa. Ci sono riusciti. Frazione interrotta, tafferugli, la Guardia Civil ha fatto qualche carica, qualcuno è stato fermato. Nessuno si è fatto male.
Poi, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha detto: “Vorremmo esprimere la nostra gratitudine e il nostro assoluto rispetto per gli atleti, ma anche la nostra ammirazione per un popolo come quello spagnolo che si mobilita per cause giuste, come quella della Palestina”. Lo stupore di chi non si capacitava dell’atteggiamento della Guardia Civil, ed erano tanti, dal mondo ultras sino a quello politico indipendentista, si è spento. Tutto iniziava a filare.
Il governo di Sánchez ha trovato il perfetto spot per il suo posizionamento internazionale a favore della Palestina e contro Israele, permettendo a chi protestava contro la presenza in corsa della squadra israeliana Israel-PremierTech e ne chiedeva l’esclusione, di agire tranquillamente. D’altra parte la causa palestinese in Spagna è molto sentita essendo, come spiegò alcuni anni fa lo scrittore e regista David Trueba, “estensione internazionale dei sentimenti separatisti locali, che in fondo sono la linfa del protestare spagnolo”.
E in tutto questo è passato in secondo piano che in Spagna si stava correndo una corsa a tappe di tre settimane e che in sella a quelle biciclette che sono state fermate c’erano dei corridori che pedalano per professione e che poco, anzi nulla, hanno a che fare con le ragioni dei manifestanti. Uomini che a più riprese hanno detto di capire le ragioni dei manifestanti, che si sono sempre detti disponibili a un incontro, a una discussione e che hanno chiesto solo una cosa: evitate di mettere a rischio la nostra sicurezza in corsa perché ci si può fare male per davvero. Invece la sicurezza dei corridori è stata più volte messa a rischio. Una cosa però è apparsa chiara: in fondo della Vuelta e della sicurezza in corsa dei corridori interessava poco a tutti.
Le proteste in Spagna hanno creato anche una frattura nell’unità della passione ciclistica. Se fino all’inizio di questa Vuelta, nessuno degli appassionati era pronto a giustificare proteste che mettessero a repentaglio la sicurezza dei corridori, ora questa unità si è disgregata. Le critiche infatti erano sempre state rivolte a chi gestiva il ciclismo, l’Uci – non sempre cristallina nelle scelte e più interessata ai soldi derivati da corse e sponsor piuttosto che alla sicurezza dei corridori – mentre i corridori venivano considerati “non colpevoli”. Tutto questo è ora entrato in crisi.
Se anche i corridori sono sacrificabili per una causa che poco ha a che vedere con il ciclismo, se frasi come quelle che circolano sui social – “di fronte alle proteste per un genocidio anche la sicurezza dei corridori va messa in secondo piano” – sono considerate accettabili e piene di senso, lo stesso passaggio del ciclismo sulle strade di tutti i giorni, con libero accesso da parte di tutti lungo la banchina è messo a rischio.