“L’Étranger” di François Ozon ne fa un colonialista impenitente e travisa la sua opera. Ma ha sbagliato bersaglio
Sì, ma che c’entra Albert Camus? Dilaga l’ossessione dell’occidente genuflesso nell’espiazione permanente per i suoi imperdonabili peccati, della sua storia ridotta a un cumulo di misfatti, del passato occidentale mostrificato come sequenza sanguinaria e ininterrotta di crimini all’insegna del razzismo, del colonialismo, del patriarcato, della misoginia sistemica, dell’oppressione, della persecuzione delle minoranze (esclusa quella ebraica, nella nuova vulgata naturalmente complice e corresponsabile dei crimini suprematisti). Sì, ma che c’entra Albert Camus? Si impone di trasformare l’arte, la letteratura, il cinema in un arcigno tribunale permanente che rinchiude l’occidente nel banco degli imputati, senza che sia rispettato e onorato il diritto alla difesa e senza che il verdetto finale possa contemplare qualcosa di diverso dalla condanna, dalla certezza della colpa, dall’imprescrittibilità degli atroci crimini commessi dall’Antichità ai nostri giorni. Sì, ammettiamolo pure, espiamo, flagelliamoci, genuflettiamoci nel coro dei penitenti, ma che c’entra Albert Camus?
Non c’entra, ma durante la Mostra di Venezia il regista François Ozon lo ha prepotentemente – e, come vedremo, abusivamente – recluso nel recinto infetto dei reprobi. Ha presentato un film, “L’Étranger”, tratto dal romanzo forse più famoso e glorificato di Camus, e il regista, che proviene da una famiglia di francesi d’Algeria ed è dunque divorato da terribili sensi di colpa, ha pensato bene, letteralmente, di “contestualizzarlo” alla sua maniera. Cioè di rileggerlo “con gli occhi del presente”, trasformando il protagonista Meursault, alter ego di Camus, in un distratto e perciò ancor più efferato assassino di arabi perseguitati, confortato da una Francia che “vedeva e parlava dell’Algeria con una visione idealizzata della colonizzazione”. Ora, secondo Ozon, bisogna strappare il velo del silenzio sui nostri crimini, raddrizzare la storia perché “abbiamo rimosso questo nostro passato”. E perciò, con una concatenazione logica a prova di bomba: Camus complice delle infamie colonialiste, Meursault killer della banda dei cattivi, sterminatore di indigeni, l’ingiustizia dei potenti che giocano impunemente con la vita degli oppressi. E del resto, non diceva forse Frantz Fanon in quel libro culto della letteratura anticolonialista ai tempi della guerra d’Algeria che tanto aveva sedotto e incantato Sartre (ma non Camus), che nella lotta anticoloniale “far fuori un europeo è come prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero”? Bene, anzi male: “Far fuori un europeo” è solo una rivincita, una forma di giustizia postuma, un risarcimento per le malefatte dei tanti Meursault cantati da Camus e che si permettono di far fuori un arabo nella cieca indifferenza etica per le conseguenze del loro gesto.
Ma con Camus il regista Ozon ha sbagliato bersaglio. Anzi, ha sbagliato bersaglio non una, ma due volte. Sul piano letterario e sul piano biografico. Nella dimensione letteraria il fraintendimento, anzi lo smaccato travisamento dello “Straniero” rovescia il senso stesso del romanzo di Camus. L’abulia di Meursault viene scambiata per cinica freddezza da killer. Nella scena madre del romanzo, l’assassino avanza con la “fronte gonfiarsi sotto il sole” di un bollente mezzogiorno su una spiaggia cotta dal caldo e da una luce accecante: “A ogni sciabolata di luce sprizzata dalla sabbia, da una conchiglia candida o da un frammento di vetro, mi si contraevano le mascelle” a causa dell’intontimento. Incontra l’arabo – reduce da una rissa con il suo amico Raimondo. E’ preda di una “ubriachezza opaca” che gli ottunde la vista e il cervello. Scambia un riflesso solare per la lama di un coltello con “la luce che ha balenato sull’acciaio” e spara, con indolenza, quasi con pigrizia e indifferenza. Impunità? Prepotenza colonialista che si permette di trattare altri uomini come fossero delle bestie? No, la storia racconta tutt’altro. Meursault viene arrestato, trattato come un “mostro morale” non per l’omicidio in sé, ma perché non aveva pianto durante i funerali della madre, perché si è ostinato a dichiarare la sua miscredenza davanti a un invasato giudice istruttore che agita minacciosamente davanti alla faccia dell’indagato un crocefisso nel cuore del suo interrogatorio-farsa. E anche perché si era permesso di intrecciare una storia erotica con una sua collega a pochi giorni dalla morte della madre (si erano persino spinti a vedere un film con Fernandel, grande attore comico dei suoi tempi, il don Camillo della saga di Giovannino Guareschi).
L’impunito colonialista del romanzo di Camus, così ferocemente scomunicato nella fantasia ricontestualizzante del regista Ozon, passa un anno in carcere, e senza nemmeno l’ombra di un trattamento privilegiato. Nel processo viene messo sotto accusa per la sua moralità più che per la specificità del delitto che pure aveva confessato di aver commesso. E alla fine viene condannato alla pena capitale rifiutando di recitare, in punto di morte, l’umiliazione di un pentimento, o di un autodafé, insistentemente invocato da un prete esagitato per la salvezza della sua anima. La giustizia ha funzionato. O meglio, si è abbattuta come una ghigliottina a mozzare il capo di un uomo, un francese d’Algeria maltrattato da una corte di inquisitori irrispettosi di ogni diritto che dovrebbe tutelare dall’arbitrio qualunque imputato, anche quello accusato dei crimini più efferati. Dov’è l’impunità, l’arroganza del suprematista, la spocchia omicida dell’oppressore? Nella rilettura autosacrificale di Ozon viene inoltre disinvoltamente cancellato (la cancel culture, appunto) il fatto che “Lo straniero” è stato uno dei pilastri della letteratura e della mentalità esistenzialista, salutato da Sartre come la rappresentazione dell’“assurdo” che irrompe nella vita quotidiana, dove “l’assurdo si identifica con la stessa condizione umana”, tanto che “lo choc che abbiamo provato nel leggere le prime pagine del libro è il risultato del nostro primo incontro con l’assurdo”. L’assurdo, il malessere, l’insensatezza del mondo che aveva fatto del romanzo uno dei manifesti culturali divorati dal vasto popolo della Rive Gauche e di Albert Camus – almeno fino alla rottura con Sartre e la setta sartriana – un simbolo della letteratura ispirata agli imperativi dell’engagement. Circostanza del tutto ignorata da François Ozon nella presentazione autopenitenziale a Venezia.
Ma ciò che conta è l’assoluta deformazione dell’esperienza del francese Camus nell’Algeria non ancora indipendente. Camus non veniva da una famiglia di francesi ricchi e sfruttatori, incarnazione di ogni nefandezza colonialista dei pied-noir, così venivano chiamati i francesi trapiantati in terra algerina. Suo padre, un lavoratore gratificato con un salario bassissimo, morì soldato nel corso della Prima guerra mondiale lasciando orfano il piccolissimo Albert. La famiglia ricevette dall’esercito francese solo poche cose, tra cui la scheggia della granata che aveva colpito e ucciso Lucien Camus e che la vedova conservò fino alla fine dei suoi giorni in una scatola di latta. La madre di Camus era analfabeta e murata in una forma estrema di mutismo: forse il dolore le aveva spezzato la voce. Non esercitava nessuna forma di autorità: l’ordine della casa era affidato alla nonna materna, abituata a ottenere obbedienza con una frusta consunta per i troppi colpi assestati. La casa era priva di acqua corrente e il bagno alla turca sul pianerottolo emanava un odore nauseabondo che in estate si mescolava a una mefitica aria stagnante che lo stesso Camus adulto ricorderà come insopportabile. C’era poco da mangiare, giusto quello che la madre muta e analfabeta riusciva a mettere nella sua sporta di ritorno dal mercato dove – particolare che influirà molto nella valutazione che Camus darà dei metodi terroristici usati dagli indipendentisti – durante la guerra per la liberazione dell’Algeria dal dominio francese scoppieranno numerose bombe destinate a colpire i luoghi più frequentati dai pied-noir.
Per mantenersi gli studi Camus si impegnò nei mestieri più svariati, da venditore di fanali per auto a impiegato non proprio di rango in una compagnia marittima. Non era la vita di un colonialista impenitente. E non erano le opinioni di un uomo che le nefandezze del colonialismo aveva denunciato sin dagli anni della gioventù, nella totale indifferenza della cultura democratica e di sinistra francese, certa che la sottomissione dell’Algeria fosse una precondizione indispensabile per il suo ingresso nella modernità guidata dalla Francia metropolitana. Giovanissimo, iniziò a scrivere per il giornale “Alger républicain”, si iscrisse al partito comunista. Raccontò “lo spettacolo abietto” e disumano degli ergastolani schiacciati in una nave che li avrebbe condotti alla Cayenna. Scrisse anche un libro, “Miseria della Cabilia”, un reportage dove venivano denunciati i soprusi cui gli strati più poveri della società algerina erano sottoposti. Un impenitente colonialista e suprematista?
Il suo ideale era una democrazia in Algeria che avrebbe dovuto pacificare le forze in conflitto dando dignità, cittadinanza politica e libertà religiosa per tutti, su un piano di eguaglianza e di rispetto reciproco e risarcendo la popolazione indigena per tutte le ingiustizie patite. Nel silenzio della cultura engagé dei caffè parigini, difese anche i militanti del Soccorso popolare d’Algeria, colpevoli di aver organizzato una manifestazione contro la sovranità francese. Camus colonialista, un suprematista che si macchiò di orrende complicità che oggi, a tanti decenni di distanza, occorre espiare mettendo sul banco degli imputati l’occidente e l’intera sua storia? La leggenda nera su Camus avversario dell’indipendentismo algerino prese forma quando l’autore dello “Straniero”, appena insignito del premio Nobel per la letteratura, e disgustato dalla pratica della tortura adoperata dai parà francesi, si permise di eccepire sui metodi terroristici che invece venivano glorificati da un film bellissimo come “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo. “Sono stato e continuo a essere”, disse Camus, “fautore di un’Algeria giusta” e tuttavia “ho sempre condannato il terrore, e devo dunque condannare un terrorismo che viene esercitato ciecamente e un giorno può colpire mia madre o la mia famiglia. Credo alla giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre”. Per Camus, proprio negli anni che hanno preceduto la sua morte, quelle parole suonarono come inammissibili nei circoli della gauche. Il suo destino di reietto era oramai segnato. E forse nelle dichiarazioni di Ozon, a tanti anni di distanza, l’eco di quelle polemiche non ha mai cessato di risuonare.
Che poi, Ozon deve assolutamente ignorare che già nel 2015 lo scrittore algerino Kamel Daoud, nel romanzo “Il caso Meursault”, aveva già provato a riscrivere la trama dello “Straniero” di Camus dal punto di vista di un arabo assassinato. Ma raccontò il dramma della popolazione algerina che aveva creduto nell’indipendenza ma si è ritrovata oppressa da una feroce dittatura islamista che ha mietuto migliaia di vittime. Per questo romanzo Daoud entrò nel mirino degli aguzzini padroni dell’Algeria. E con il successivo romanzo “Houris”, vincitore del Premio Goncourt nel 2024 e tradotto in Italia dalla Nave di Teseo, il suo nome è entrato nella lista nera del regime che già ha rinchiuso in carcere lo scrittore Boualem Sansal, tenuto prigioniero per le sue opinioni senza che si sia levata una sola voce dal bel chiasso del mondo degli occidentali che si indignano a corrente alternata, a seconda delle convenienze. Chissà cosa avrebbe pensato di loro Albert Camus, deformato dal nuovo conformismo come un colonialista: lui che contro le nefandezze del colonialismo e dei due totalitarismi del ventesimo secolo ha combattuto una vita.