Santi senza polvere

Uno che s’interessava di miracoli eucaristici, l’altro che scalava montagne con gli amici. Acutis e Frassati, così lontani ma complementari. Venerati da milioni di giovani, possono essere la chiave per risvegliare la fede assopita

Le perplessità, talvolta accompagnate addirittura allo sdegno, per la canonizzazione di Carlo Acutis (e per tutto quel che lo circonda, a cominciare da un battage promozionale che ora è auspicabile si riduca lasciando spazio alla sincera devozione per questo ragazzo innamorato di Gesù), non sono cosa fuori dal mondo. Sono, al contrario, del tutto comprensibili. Come è possibile che un giovane nato nel 1991 passasse una notevole parte del suo tempo davanti al Santissimo sacramento? Per quale imperscrutabile ragione si interessava ai miracoli eucaristici, materia oscura pure per molti attempati cattolici che frequentano le chiese da decenni e sono, come va di moda dire, “attivamente impegnati”? E’ incomprensibile, soprattutto per un mondo fattosi sempre più introverso e riflessivo, un po’ sociologico, dai dotti pensieri, dalle sofisticate elucubrazioni che guarda a tutto quel che c’era prima come a qualcosa di vecchio e superato, senza mai però proporre qualcosa di alternativo che sia valido e convincente, altrimenti le chiese sarebbero piene ogni domenica fino all’ultimo banco. Il mondo dei cattolici molto adulti che demolisce ogni retaggio di “bigotteria” cara alle bisnonne, quelle che mentre il prete celebrava in latino dando loro le spalle, sgranavano il rosario o si raccontavano le novità del paese.

Carlo Acutis è fuori dal tempo, è inspiegabile. Forse addirittura insensato per i criteri contemporanei. Eppure, per quel quindicenne tutto messa, adorazione e sacramenti, Roma era stata invasa ad aprile da migliaia e migliaia di ragazzini che Carlo neppure l’avevano conosciuto, essendo nati anni dopo la sua morte. Tutti in piazza San Pietro con magliette di cotone recanti la data della canonizzazione, che poi non si sarebbe fatta perché anziché a un momento di gioia si ritrovarono ad assistere ai funerali del Papa. E non è solo l’evento clou: ogni volta che la statua di Acutis si fa pellegrina nelle parrocchie, da un capo all’altro d’Italia, ecco che vi affluiscono centinaia di ragazzi. La sua tomba, ad Assisi, ha più visitatori di quella di san Francesco. Un mito, insomma. Un modello di santità per il nostro mondo di evidenze crollate l’una dopo l’altra, che però ha in sé qualcosa di quell’antico che oggi si fa fatica a comprendere. Il paradosso, se si vuole, è che fra i due nuovi santi quello davvero moderno – almeno per le categorie alla nostra portata – è Pier Giorgio Frassati, morto cent’anni fa. A un primo sguardo, mettendo da parte i santini e saltando le scontate agiografie, Frassati è quanto di più lontano possa esserci dall’ideale di santo come canonicamente inteso: scherzi con gli amici, foto buffe, divertimento e pure qualche sana rissa per le vie di Torino. Lo disse anche sua sorella “quasi” gemella, Luciana: “Quando leggo le biografie scritte su di lui, spesso mi arrabbio perché lo dipingono come lui non era. Pier Giorgio non aveva niente a che fare con l’immagine del ‘santerello’, taciturno e remissivo. Era un vulcano di energia e di attività. Aveva un carattere forte e deciso. Era temerario, burlone, sempre pronto a combinare scherzi atroci e se era necessario anche a menare le mani. La sue ‘scazzottate’ per le strade di Torino, per difendere le sue idee, le sue convinzioni religiose e le sue scelte sociali, sono rimaste famose. Aveva pugni pesanti e più volte, dopo gli scontri di piazza tra opposte fazioni, venne fermato dalla polizia e portato in questura. Era insomma un ‘uomo’, un ‘grande uomo’”. Non a caso, Wanda Gawronska, nipote di Frassati, s’era mostrata dubbiosa sull’opportunità di canonizzarli insieme, loro così diversi: in effetti, il programma originario prevedeva due momenti separati: ad aprile Carlo, in occasione del Giubileo degli adolescenti, ad agosto Pier Giorgio, a Tor Vergata. Poi, la scelta di un’unica celebrazione.

Ma allora cosa unisce queste due figure così distanti nel tempo? L’ha detto Leone XIV nell’omelia di una settimana fa, in piazza San Pietro: “Un giovane dell’inizio del Novecento e un adolescente dei nostri giorni, tutti e due innamorati di Gesù e pronti a donare tutto per Lui”. “Entrambi hanno coltivato l’amore per Dio e per i fratelli attraverso mezzi semplici, alla portata di tutti”. A cominciare dalla messa. Ecco. La doppia canonizzazione di due figure così distanti nel tempo ha quindi una sua logica. Senza troppo pensarci, forse, si è presentata una chiave utile a risvegliare una fede che tra i più giovani, alle nostre latitudini, da tempo appare assopita. Due santi diversi, certamente, ma complementari. Il ragazzo che parla di miracoli eucaristici e di adorazione e il venticinquenne che tra una gita con gli amici e una visita agli scartati della società invita a guardare più su e ad andare “verso l’Alto”. In una società come questa fatta di solitudini sempre più inscalfibili, dove anziché passare il sabato pomeriggio all’oratorio come si faceva una volta non di rado si preferisce stare chiusi nella propria stanzetta a fissare schermi, a giocare a qualche videogioco o a chattare con gente che nemmeno si conosce, presentare oggi modelli “diversi” ha un suo perché. Frassati, intanto, per il quale l’amicizia era un fattore essenziale di coesione e di alimento. Un’amicizia che si sarebbe mantenuta, scriveva all’amico Isidoro Bonini, anche nella lontananza: “Vorrei che noi giurassimo un patto che non conosce confini terreni né limiti temporali: l’unione nella preghiera”. Ha scritto don Primo Soldi, autore tra gli altri di Pier Giorgio Frassati. L’amico degli ultimi (Elledici), che “dall’amicizia così concepita nascono l’impegno missionario, prima di tutto, fondato sulla carità, la virtù teologale che durerà in eterno, ma anche quello sociale, politico e culturale. Frassati prese parte a quasi tutte le associazioni cattoliche, dalla Fuci alla San Vincenzo e si impegnò nel Partito popolare di don Luigi Sturzo, di cui fu un grande ammiratore. Fu un lettore vorace, assiduo, certamente selettivo: tra gli altri, di santa Caterina da Siena, di Agostino, di Dante (la preghiera alla Vergine di san Bernardo del Paradiso dantesco fu da lui imparata a memoria e quotidianamente recitata). Tutto, insomma, fu per lui un ponte verso il cielo, nel suo sguardo verso l’Alto, verso l’Altro; insomma, non vivacchiare, ma vivere”. Cosa c’è di più attuale di questo? L’invito a vivere, che non a caso Leone XIV ha ricordato al termine della sua omelia. E poi Acutis che diceva: “L’unica cosa che dobbiamo temere veramente è il peccato”; e si meravigliava perché – ricordava il Papa – “gli uomini si preoccupano tanto della bellezza del proprio corpo e non si preoccupano della bellezza della propria anima”. Non c’è contraddizione tra i due; fanno sì parte di universi lontani, uno in grisaglia e l’altro con la maglia del Milan, la sua squadra del cuore, ma alla fine risultano uniti dalla fede, profonda e sincera per le cose semplici. Per quelli che sono “i fondamentali”, si potrebbe dire.

Qualche tempo fa, commentando la ripresa – piccola nei numeri ma costante nel tempo – del cattolicesimo in Svezia, il parroco della cattedrale di Stoccolma diceva un po’ incredulo che questi giovani sono attratti dal tabernacolo, non da altro. In una realtà in cui hanno quasi tutto a disposizione e con un clic possono avere anche quel poco che non hanno, sono rapiti dal mistero che si cela lì. Si chiedono cosa sia, s’interrogano sul perché tanti ad altre latitudini del globo si inginocchino quando ci passano davanti. Percepiscono, insomma, qualcosa di più e di diverso, di alto. Carlo Acutis lo diceva: “Davanti al sole ci si abbronza. Davanti all’eucaristia si diventa santi!”. E’ utile allora capire che l’entusiasmo prorompente di Frassati (“Quando entrava lui al Politecnico, era come se fosse entrata una valanga di vita. Ammiravo la sua aria franca e coraggiosa, con la quale portava al cospetto del mondo le sue idee religiose. La sua era una Fede prorompente”, si legge tra le testimonianze di chi lo conobbe bene) unito alla devozione di Carlo possono essere davvero la chiave di volta per scardinare il panorama quasi piatto di una fede di minoranza e, al di là di improvvise e per molti osservatori sorprendenti esplosioni d’entusiasmo (vedasi Tor Vergata 2025 con il milione di ragazzi prima festanti e poi silenziosi mentre adoravano col Papa in ginocchio il Santissimo), sempre più introspettiva. Famiglia Cristiana è andata a chiedere ai coetanei di Acutis cosa rappresenti per loro. Risposta: “Uno che sentiamo vicino e fa in modo che possiamo avvicinarci a lui e alla fede, spesso raccontata come qualcosa che ha a che fare con gli anziani o le persone noiose. San Francesco, ad esempio, è stato un gigante, ha vissuto secoli fa, non pensi neanche che potresti avvicinarti a lui. Con Carlo è diverso. Il fatto di condividere la stessa insegnante di matematica significa che si può vivere una vita bella, di fede, anche qui oggi”. Un’altra coetanea: “In un mondo dove la fede, quando c’è, viene relegata nel privato, quasi nascosta, Carlo non si vergognava di essere credente, andare a messa tutti i giorni, ma faceva tutto questo con discrezione, quasi di nascosto”. Un altro ragazzo: “Lo sentiamo vicinissimo, come un nostro compagno di scuola. Il fatto che abbia utilizzato internet, fosse appassionato di tecnologia digitale e sapesse adoperare benissimo il computer, rende l’idea stessa della santità come una possibilità aperta a tutti, non qualcosa di arcaico e polveroso”. Tradotto: se presentati bene, anche i miracoli eucaristici possono risultare convincenti e straordinari a un adolescente. Si tratta, come sempre, del modo in cui la fede viene trasmessa, vera piaga odierna.

E’ questo il problema della Chiesa di oggi: come saziare generazioni disorientate che cercano un senso per la propria esistenza e per capire il mondo e non trovano nulla che li appaghi per più di qualche istante. Una Chiesa dove vi è da una parte la rassegnata somministrazione di precetti senza spiegarne il contesto e dall’altra il ripiegamento su un infantilismo superficiale che scommette che con due salamelle, un gelato, una lotteria serale incastrata fra una messa vespertina e una gita domenicale in montagna, si riesca a tenere per qualche anno ancora i ragazzi nell’orbita parrocchiale. Ha scritto il sociologo Franco Garelli che “se si pensa che vi sia stata un’età dell’oro della fede e della religiosità – caratterizzata da alti tassi di credenza e di pratica, da una diffusa accettazione della verità e delle autorità religiose – è del tutto plausibile riconoscere che il barometro della religiosità prometta brutto tempo, se non tempesta. Tuttavia, quando si enfatizza la fede del passato in genere non si considera che parte di essa era dovuta al clima di conformismo sociale tipico dei contesti più tradizionali (e culturalmente più chiusi); e soprattutto non si presta attenzione alla diversa esperienza morale, religiosa e spirituale che caratterizza ogni periodo storico e informa quanti in esso sono chiamati a vivere”. Il filosofo Charles Taylor ha aggiunto che quella del passato era un’epoca in cui era quasi impossibile non credere in Dio e non aderire alla fede della tradizione: era qualcosa di scontato, di ovvio. Oggi, invece, la fede è una opzione fra le tante. “Questo – aggiungeva Garelli – per dire che ‘leggere’ l’oggi con le categorie del passato impedisce di cogliere la profondità del cambiamento che ha interessato in questi ultimi decenni lo scenario religioso, che è indubbiamente caratterizzato da molti indizi di secolarizzazione, ma anche da forme di ricerca di senso per vari aspetti inedite e inattese”. Il problema è come instradare questa ricerca, quali indicazioni dare affinché risultino utili per trovare la strada giusta. Forse, i modelli di santità proposti, un giovane uomo d’inizio Novecento e un sedicenne con la passione di internet e dell’adorazione eucaristica, potranno aiutare nel cammino.

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