Le novità strabilianti dei materiali high tech le permettono soluzioni di luce e torsioni di forma incredibili, davvero strabilianti, avvicinandola mastodonticamente alla pura creatività immaginifica e surreale della pittura e della scultura
Nell’anno in cui Norman Foster – uno dei massimi architetti contemporanei e, seppur british, vera archistar – ha compiuto novant’anni e Antoni Gaudí si prepara a divenire il primo Beato tra gli architetti con la sua cattolicissima Sagrada (sarà ultimata nel 2026, centenario della sua scomparsa) l’architettura trionfa. Infatti nella morte – o narcolessia – delle altre arti (pittura, scultura, musica, letteratura), che sembrano ormai non aver quasi più nulla di nuovo da esprimere, avendo detto tutto e il contrario di tutto, l’unica ancor vitale e pimpante pare proprio lei. Oggi come una cenerentola delle arti – da sempre priva della sua classica Musa protettrice, come pure esclusa dai Trivi e Quadrivi medievisti quale arte meccanica – essa si gode infine la sua bella rivincita.
La proprietà che un tempo la condizionava e “abbassava” rispetto all’eterea pitagorica musica o alla poesia vaticinante, ossia la sua materialità funzionale, oggi la riscatta, perché le novità strabilianti dei materiali high tech le permettono soluzioni di luce e torsioni di forma incredibili, davvero strabilianti, avvicinandola mastodonticamente alla pura creatività immaginifica e surreale della pittura e della scultura, nonché alla profezia del futuro (già Brâncusi sosteneva che l’architettura fosse una “scultura abitata”). Inoltre l’architettura è come una stratigrafia delle città, al punto che percorrendo taluni viali cittadini, dall’esterno verso l’interno, si ha l’impressione di penetrare nelle ère geologiche urbane, passando dai tempi più recenti sino a quelli remoti e fossili. Insomma l’architettura, piaccia o no, è un indicatore della vita e pur della morte delle città: quelle ove non sorgono più nuove architetture (le spesso esecrate “architetture moderne”) hanno esaurito il loro ciclo vitale, il loro élan vital: sono appena musei fissisti a cielo aperto senza alcuna tensione verso il futuro o il nuovo. Problema tipicamente italico, quello della sempiterna genuflessione davanti al passato, che i Futuristi – a cominciare da Antonio Sant’Elia e dal suo “Manifesto dell’architettura futurista” – sentirono e vollero risolvere ex abrupto: “Da un’architettura così concepita [quella dei futuristi] non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”.
In tal senso si misuri la dinamicità architettonica della Milano di oggi – che abbatte il passato per costruire il futuro e costruisce il futuro per abbattere il passato – con quella di qualunque altra città italiana, contenta e gelosa del proprio anticume, e si vedrà che quasi sempre vi corrispondono l’atrofia e l’immobilismo dell’economia e il ritardo rispetto alla visione dell’avvenire. Insomma l’architettura è anche una cartina di tornasole dell’uomo politico, calato nel presente e nella viva storia, in quanto uomo della polis. Persino in libreria si assiste a un trionfo dell’architettura: la collana dei Millenni einaudiani – forse la più prestigiosa e meno ondivaga della nostra editoria – ha da poco dedicato un volume di ben mille pagine ai teorici italiani dell’architettura dal titolo “Trattati rinascimentali di architettura”. Mediante un’intelligente suddivisione per temi (l’architetto, l’esempio degli Antichi, il palazzo, la villa, la fortificazione ecc.) si possono leggere lunghi stralci di Alberti, Filarete, Scamozzi, Martini, Serlio, Vignola, Palladio, i quali hanno di fatto reso possibile in Europa, con la loro rivendicazione umanistica dello statuto dell’architettura, la sua imperiosa fioritura attuale. Forse l’architettura è pur la chiave per comprendere l’Italia, questo rebus geopolitico: nel “Gattopardo”, quando gli inglesi visitano il feudo del Principe di Salina, lodandone la bellezza paesaggistica ma insieme deprecandone l’assenza di strade, il principe gattopardesco argomenta dentro di sé che potevano godere di tanta bellezza proprio per l’assenza di strade.