“Prove me wrong”, dimostrami che ho torto, era il format di successo di Charlie Kirk. Con il confronto diretto, spesso spietato, ha portato il trumpismo tra i giovani, e rifatto i media conservatori
Per circa venti minuti, nel campus della Utah Valley University, prima di essere colpito a morte da un proiettile che gli ha perforato il collo, Charlie Kirk ha fatto quel che aveva fatto per decine di altre volte nella sua carriera: si è seduto davanti agli studenti – tantissimi – e ha parlato di politica con chiunque volesse discutere con lui. Era questa la specificità del fondatore di Turning Point Usa, una delle organizzazioni giovanili più potenti di sempre, ricca palestra del trumpismo: non stava nella sua bolla, Kirk, non voleva parlare a chi già la pensava come lui, voleva convincere scettici e detrattori che la sua idea del mondo, della politica, del futuro dell’America fosse quella giusta. L’arte della persuasione, in una società deformata dalle tifoserie, dalle fratture ideologiche, dal con me o contro di me, dalle argomentazioni standardizzate (e sintetiche: devono stare in una card sui social), è una cosa rara, ma Kirk la praticava sfacciato: “Prove me wrong”, dimostrami che ho torto, era il suo format più popolare, il confronto diretto, il dialogo, prova a convincermi che hai ragione tu. Voleva maneggiare il dissenso, Kirk, per ridicolizzarlo, per ribadire le parole chiave del nuovo conservatorismo americano, per farsi applaudire dai tanti che non andavano a vederlo per sfidarlo, ma soprattutto per convincere, per trovare nuovi sostenitori, per costruire la base giovanile del trumpismo e modellarla secondo le sue idee. La persuasione non era certo neutra né un esercizio retorico, aveva scopi e idee precise, estreme, un intento di proselitismo che ha fatto grande se non l’America di sicuro Donald Trump.
La Valley University dello Utah aveva pubblicizzato l’incontro con Kirk scrivendo: “Unisciti a Charlie Kirk al campus per una discussione sulla libertà e l’America. Non sei d’accordo con Charlie? Bene, sarai il primo della fila. Ci vediamo lì”. E Kirk si era messo seduto sotto al tendone per proteggersi dal sole a picco, maglietta bianca e aria di chi sa che uscirà vincente, con la scritta del suo progetto, “The American Comeback Tour” e il provocatorio “Prove me wrong” tutt’attorno.
Ad accoglierlo c’erano dei manifestanti, qualche cartello: sei un fascista, sei un bugiardo. Qualcuno aveva cercato di boicottare l’incontro, ma il rettore dell’università non gli aveva dato retta. Mettetevi comodi, ha detto Kirk, staremo qui almeno un paio d’ore. Venti minuti dopo è arrivato il proiettile, mentre Kirk parlava: la testa piegata all’indietro, il fiotto di sangue, la corsa inutile all’ospedale.
Ieri molti dei suoi sostenitori hanno condiviso una clip in cui Kirk rispondeva a una signora che gli aveva chiesto il perché del suo format “Prove me wrong”: “Quando le persone smettono di parlare, è allora che si scatena la violenza”, dice Kirk, “è allora che scoppia la guerra civile, perché inizi a pensare che l’altra parte sia malvagia e che perda la sua umanità”. Anche il New York Post, tabloid conservatore, nella sua prima pagina segnata a lutto, riporta una frase simile di Kirk: “Dobbiamo tornare a un punto in cui siamo in grado di avere un ragionevole disaccordo, in cui la violenza non è un’opzione”.
Appena dopo la morte di Kirk, Adam Rubenstein ha pubblicato un articolo su Free Press in cui ricorda un incontro con Kirk nel 2019, un anno dopo aver pubblicato un suo ritratto sul giornale in cui lavorava allora, il Weekly Standard (che è poi stato chiuso): “Diceva di sì a qualsiasi richiesta: a uno studente che gli ha fatto domande sull’economista libertario Murray Rothbard, a un attivista che chiedeva un selfie, a un giornalista che gli chiedeva conto dell’ultimo tweet di Trump”. Questa sua accessibilità era la chiave del suo successo – non era senza costi, a giudicare dalle guardie del corpo che si vedono dietro di lui nel video dell’omicidio – e Rubenstein sostiene che non fosse il metodo scelto da Kirk per sentirsi il più bravo e intelligente di tutti, ma che fosse l’essenza della sua arte persuasiva e della sua battaglia per la libertà d’espressione. Uno stratega del Partito repubblicano, T. W. Arrighi, ha scritto su X: “Charlie ha creato un movimento nei campus di tutta l’America coinvolgendo gli studenti nel dibattito e nel dialogo, sfidando l’ortodossia e intanto conquistando cuori e menti. Non è forse questo che vogliamo dai nostri politici?”.
Per tredici anni, da quando ha fondato Turning Point Usa (lui di anni ne aveva 18), Kirk ha sostenuto e difeso le sue idee di destra in confronti davanti alle telecamere con accademici progressisti, nei campus, sui social, nei suoi podcast. Il suo desiderio di confrontarsi e discutere è diventato un segno distintivo dell’organizzazione no profit, contribuendo a trasformare Kirk in una star dei media trumpiani e un ambìto ospite televisivo e di podcast. Non ce ne sono tanti, nella bolla trumpiana, di persone come lui. Brian Stelter, che si occupa di media alla Cnn, ha raccontato di aver avuto degli scambi di email con Kirk, il quale lo aveva invitato a un “dibattito aperto e libero” insieme: “Cerco di essere proattivo nell’incoraggiare il dialogo tra le persone che non sono d’accordo”, aveva scritto. Questa devozione per il confronto lo ha portato non soltanto a guidare una macchina di soldi potentissima (ci sono anche i video degli incontri con i finanziatori: è molto persuasivo pure quando parla a un pubblico amico) ma a rivoluzionare il sistema di informazione cui fa riferimento il mondo trumpiano. In quello che è risultato essere l’ultimo articolo-intervista su di lui, pubblicato qualche giorno fa su Deseret News, Kirk dice: “Vogliamo essere un’istituzione che sia nota e potente quanto il New York Times, Harvard e le aziende tecnologiche, e siamo convinti che lo stiamo facendo”. In questo “noi” c’è Turning Point Usa (che ha anche una associazione cugina nel Regno Unito, che gravita attorno ai nazionalisti di Nigel Farage), ma anche la galassia di podcast e siti del mondo trumpiano. Nel 2022, ha scritto la prefazione al libro di uno stratega trumpiano, Alex Bruesewitz, “Winning The Social Media War”, in cui dice: “Dobbiamo lavorare dentro il sistema per creare abbastanza consapevolezza, abbastanza energia, abbastanza coraggio da cambiarlo, il sistema. Non dobbiamo creare una lista infinita di martiri digitali che sono stati cancellati dai social. Dobbiamo tenerne traccia, ma non dobbiamo produrli in massa”. Allora i social e le Big Tech erano i rivali: erano liberal, woke, illiberali. Kirk era nato su quelle piattaforme, e ne era grato, ma diceva: ora vanno trasformate, da dentro.
Era il suo manifesto, e lo ha messo in pratica, concedendosi a tutti, parlando con tutti, aiutando altri a costruire nuovi prodotti, podcast e trasmissioni su YouTube, e indicando ai suoi tanti sostenitori – quei giovani che i media tradizionali non sanno intercettare – chi seguire, dove informarsi, di quale commentatore o testata dubitare. Così ha messo in circolo le sue idee estreme, mescolate a bugie e complotti, in quel modo pericoloso che ha completamente deturpato il dibattito pubblico americano, ancor più perché ammantato da questa soave accessibilità. Se nel 2016, quando ha cominciato a lavorare per la campagna di Donald Trump, parlava soltanto di “small government”, in linea con un conservatorismo che nel frattempo è scomparso, poi si è buttato sulle battaglie culturali, gender, aborto, famiglia tradizionale (era cristiano evangelico), lotta alla criminalità e, da ultimo, la difesa strenua del governo israeliano di Benjamin Netanyahu. Sempre difendendo Donald Trump, seguendo Donald Jr. nel suo viaggio in Groenlandia con annesse ambizioni di conquista, chiedendo nei suoi incontri: perché non ti piace Trump? In un video che ha avuto 60 milioni di visualizzazioni su TikTok, una sventurata gli risponde: “Perché è razzista”. E lui chiede: dimmi cosa intendi per razzista. La sventurata inizia a balbettare, cerca argomenti dal pubblico, Kirk non riesce a trattenere un ghigno. In un’intervista a Katy Balls pubblicata sul Sunday Times all’inizio di agosto, Kirk fornisce consigli per attuare la sua stessa rivoluzione nei giovani del Regno Unito: “Penso che ci siano dei valori occidentali comuni. Stiamo assistendo al collasso del maschio, alla distruzione della famiglia. E guarda cosa abbiamo fatto con il movimento per Trump, che oggi non ha paura di parlare di ciò a cui tiene, di ciò che considera prezioso. Siate coraggiosi abbastanza da spezzare l’ortodossia politica e il politicamente corretto. Organizzatevi. Usate i social media, trovate degli influencer. Da noi ha funzionato, può farlo anche qui”.
Charlie Kirk ha portato i giovani a votare per Trump (il presidente lo aveva ringraziato), ha cambiato le priorità del movimento trumpiano, non è rimasto impigliato nella bolla complottista che si parla addosso (anche se ha ripetuto molte delle bugie del mondo Maga): ieri ci sono state le celebrazioni per il 24esimo anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre, uno dei più importanti “turning point” della storia americana. Trump è andato al Pentagono a tenere il suo discorso: ha annunciato il tributo della medaglia per la libertà a Charlie Kirk.