Il presidente russo non può fermarsi adesso: non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era dato. Può solo ampliare gli attacchi, sconfinando oltre l’Ucraina. La domanda è: l’occidente glielo permetterà?
Il 10 settembre la Russia ha lanciato una ventina di droni contro la Polonia, paese membro della Nato. Non si è trattato di un semplice sconfinamento legato agli attacchi contro l’Ucraina, ma di un atto ostile deliberato e pianificato, maturato al Cremlino nei mesi precedenti. La decisione si inserisce in un contesto internazionale mutato con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca: la sua retorica, le misure ostili nei confronti degli alleati transatlantici – dai dazi ai tagli dei fondi destinati al rafforzamento della sicurezza nell’Europa orientale – e la mancanza di azioni concrete contro la Russia, accompagnata da gesti diplomatici plateali e privi di sostanza, hanno contribuito a rafforzare a Mosca la percezione che fosse giunto il momento di allargare il conflitto.
Due, in particolare, appaiono gli obiettivi di questa escalation. Il primo è quello di testare la risolutezza della Nato: la convinzione, sempre più radicata nelle élite russe, è che un attacco contro un paese dell’Europa orientale non provocherebbe un intervento diretto degli Stati Uniti. Il secondo motivo, che a prima vista può sembrare paradossale ma risulta sempre più plausibile, è legato alla percezione di una sconfitta strategica in Ucraina. Lo ha espresso chiaramente Margherita Simonyan, una delle principali voci della propaganda russa, quando in un talk show ha dichiarato: “Molti connazionali mi chiedono stupiti come mai la nostra Grande Russia non riesca a sconfiggere la piccola Ucraina. E io rispondo sempre che la Russia non combatte solo contro l’Ucraina, ma contro tutto l’occidente”. L’attacco alla Polonia sembra dunque inserirsi in questa logica: trasformare l’immagine di una guerra logorante e priva di successi decisivi in Ucraina in una sfida geopolitica di più ampio respiro contro l’intero occidente.
Fin dall’inizio dell’invasione russa, nel febbraio 2022, si è discusso a lungo su cosa potesse significare vittoria o sconfitta, sia per l’aggressore sia per l’aggredito. Per l’Ucraina, che non ha mai avuto altra scelta se non quella di difendersi, la vittoria minima consisteva nel mantenimento della sovranità e dell’indipendenza dello stato, obiettivo che, seppur a costo di enormi sacrifici, è stato finora raggiunto. La vittoria massima sarebbe invece il ripristino dei confini del 1991, sancita dal diritto internazionale. Per intravedere la possibile fine del conflitto e comprendere perché Mosca non mostri alcuna intenzione di porre termine a una guerra che le è già costata oltre un milione di perdite tra morti e feriti, occorre pero interrogarsi sul motivo per cui il Cremlino consideri la chiusura delle ostilità, in questo momento, come una sconfitta.
Generalmente, per analizzare vittorie e sconfitte è necessario considerare gli obiettivi dichiarati – e quelli ridefiniti nel corso del conflitto – e valutare in quale misura siano stati raggiunti. Al Cremlino non si può certo rimproverare mancanza di chiarezza: sin dall’inizio dell’aggressione contro l’Ucraina, il presidente Putin, il ministro degli Esteri e altri esponenti di vertice hanno ribadito più volte le finalità strategiche della Russia. A tre anni e mezzo dall’inizio della guerra, questi obiettivi restano sostanzialmente immutati; a variare, piuttosto, sono le scadenze fissate per il loro conseguimento, puntualmente rinviate di fronte alla straordinaria resistenza militare di Kyiv.
Un esempio emblematico è l’obiettivo di conquistare il Donbas: l’occupazione integrale delle regioni di Luhansk e Donetsk è stata annunciata e riprogrammata più volte, senza mai essere raggiunta. Già nella primavera del 2022, nella fase iniziale della cosiddetta “operazione militare speciale”, alle forze russe era stato ordinato di completarne l’occupazione entro la fine di giugno. Nei mesi successivi Putin fissò al 15 settembre il termine per la cattura completa dell’oblast di Donetsk, ma anche questa scadenza passò senza risultati. All’inizio del 2023 impartì un nuovo ordine al capo di stato maggiore Valerij Gerasimov per conquistare l’intero Donbas entro marzo, obiettivo rimasto nuovamente disatteso. Nell’estate dello stesso anno il Cremlino esercitò ulteriori pressioni sui comandanti affinché ottenessero progressi significativi entro il primo anniversario dei referendum di annessione, a fine settembre 2023, ma anche in quell’occasione la realtà del campo di battaglia impedì di rispettare la tabella di marcia. Più di recente, nell’agosto 2025, Putin ha dichiarato che l’Ucraina avrebbe dovuto “cedere Donetsk” poiché la Russia avrebbe conquistato la regione entro ottobre di quest’anno.
Una dichiarazione che si affianca a quanto riferito dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, secondo cui Putin avrebbe confidato a Steve Witkoff, inviato speciale degli Stati Uniti, l’intenzione di prendere l’intero Donbas entro la fine del 2025. Ma tornando agli obiettivi dichiarati dal Cremlino nella guerra contro l’Ucraina, quali erano e cosa è stato effettivamente raggiunto dopo tre anni e mezzo di conflitto? In ordine sparso: la demilitarizzazione dell’Ucraina, cioè la distruzione della capacità militare del paese; la cosiddetta “denazificazione”, che in realtà significava il cambio di governo a Kyiv per sostituirlo con uno filoCremlino, in sostanza trasformare l’Ucraina in una specie di nuova Bielorussia; lo status di neutralità dell’Ucraina, per impedirne l’integrazione euro-atlantica; le rivendicazioni territoriali, con l’annessione diretta di parti del sud e dell’est del paese; infine la riaffermazione dello status di grande potenza della Russia, dimostrando la capacità di dettare gli equilibri di sicurezza non solo nel proprio vicinato ma anche in Europa.
Ora, cosa è stato davvero raggiunto? Laddove Mosca mirava a smilitarizzare l’Ucraina, oggi si trova di fronte a una delle forze armate più forti d’Europa. Dopo l’invasione su larga scala del febbraio 2022, l’esercito ucraino ha conosciuto una trasformazione radicale. Pur inizialmente indebolite da anni di sottofinanziamento e inefficienze strutturali, le forze armate ucraine si sono rapidamente professionalizzate, investendo in addestramento, tattiche moderne e coordinamento. Nonostante le perdite umane ingenti, hanno acquisito un’enorme esperienza sul campo, in particolare nella guerra urbana, nei duelli di artiglieria e nelle operazioni combinate, sviluppando resilienza, mobilità e strutture di comando decentrate.
Il sostegno occidentale è stato decisivo in questa evoluzione. Massicci trasferimenti di armamenti avanzati, condivisione di intelligence e programmi di addestramento congiunti hanno rafforzato significativamente la potenza di fuoco ucraina, le capacità di attacco di precisione, la difesa aerea e la guerra elettronica. Parallelamente, Kyiv ha saputo innovare, integrando droni, sistemi di controbatteria e reti di difesa territoriale per massimizzare l’efficacia contro un avversario numericamente superiore. Il risultato è un esercito che combina professionalità, adattabilità e morale elevato, capace di condurre operazioni complesse.
Passando ora all’obiettivo della cosiddetta “denazificazione” dell’Ucraina, ossia il cambio di governo e il controllo politico su Kyiv, i piani del Cremlino si sono rapidamente scontrati con la realtà. Le forze russe furono respinte alle porte della capitale già nell’aprile 2022, subendo gravi perdite sia in termini di uomini che di equipaggiamenti. La combinazione di cattiva pianificazione, fallimenti logistici e sottovalutazione della resistenza ucraina, unita alla determinazione e all’organizzazione dell’esercito e delle forze di difesa civili, mandò in frantumi il progetto di Mosca.
Invece di indebolire Volodymyr Zelensky, l’invasione ne rafforzò la leadership e la legittimità politica. La sua visibilità e la sua presenza a Kyiv durante l’assedio, unite a una comunicazione efficace e a un’intensa attività diplomatica internazionale, galvanizzarono il sostegno interno e quello esterno. La resilienza del paese e i successi militari nel 2022 alimentarono il morale nazionale e consolidarono il consenso popolare attorno a Zelensky, rendendolo ben più influente e riconosciuto a livello internazionale rispetto a quanto fosse prima del febbraio 2022. In sostanza, il tentativo di cambio di regime non solo fallì, ma contribuì a fortificare il governo che la Russia voleva abbattere, trasformando Zelensky in un simbolo della resistenza e dell’unità ucraina.
Un altro obiettivo dichiarato da Mosca all’inizio del conflitto era impedire l’integrazione dell’Ucraina con le istituzioni occidentali, in particolare con la Nato e l’Unione europea, mantenendo così Kyiv nella propria sfera d’influenza. Nonostante anni di pressioni politiche, coercizione economica e l’invasione del 2022, la Russia non è riuscita a raggiungere questo scopo. Al contrario di isolare Kyiv, la guerra ne ha accelerato l’integrazione con l’Europa. Prima del conflitto, le prospettive dell’Ucraina di ottenere lo status di candidato all’Ue erano quasi nulle; l’invasione russa ha invece impresso un’accelerazione decisiva. Nel giugno 2022 l’Ue ha concesso all’Ucraina lo status di paese candidato, un passo storico che sarebbe stato quasi impensabile in condizioni di pace. Da allora, il processo di adesione ha dato impulso a una vasta gamma di riforme nello stato e nella società civile. Kyiv ha introdotto cambiamenti significativi sul piano legale, economico e della governance (molto resta ancora da fare), mentre le iniziative della società civile sono fiorite, promuovendo trasparenza, responsabilità e partecipazione. Invece di allontanarla dall’Europa, l’aggressione russa ha rafforzato l’orientamento europeo dell’Ucraina, consolidando l’unità nazionale, accelerando la modernizzazione istituzionale e radicando il paese ancora più a fondo nel quadro europeo – esattamente il contrario degli obiettivi di Mosca.
Prima della guerra, la Nato non aveva alcuna intenzione di accettare l’Ucraina nell’Alleanza. L’adesione era considerata irrealistica, sia a causa delle debolezze interne del paese, sia perché molti stati membri temevano di provocare la Russia. Ancora oggi non esiste una volontà politica condivisa all’interno della Nato per offrire a Kyiv una chiara prospettiva di ingresso. Ciò che è cambiato, tuttavia, è la percezione dell’Ucraina. Se prima del 2022 il paese era spesso visto come un peso con scarso valore aggiunto per la difesa collettiva dell’Alleanza, l’invasione su larga scala lo ha trasformato in uno degli eserciti più capaci d’Europa. Come dicevamo attraverso anni di combattimenti ad alta intensità, l’Ucraina ha maturato un’esperienza di campo senza paragoni, sviluppato tattiche innovative e perfezionato l’impiego di tecnologie come droni, strumenti di cyberwarfare e sistemi di difesa aerea integrata. Queste capacità, unite alla comprovata resilienza delle sue forze armate, fanno dell’Ucraina un potenziale asset strategico piuttosto che un peso per la Nato. Ciò solleva una domanda cruciale: ha ancora senso mantenere l’Ucraina fuori dall’Alleanza, dal momento che l’invasione russa l’ha paradossalmente resa molto più “appetibile” per la Nato, trasformandola in un pilastro della sicurezza europea anziché in un avamposto fragile?
Una delle priorità dichiarate da Putin fin dall’inizio dell’invasione su larga scala è stata la completa occupazione del Donbas, presentata come la “liberazione” delle regioni di Donetsk e Luhansk. Sebbene le forze russe siano riuscite a conquistare quasi l’intero oblast di Luhansk e ampie porzioni di quello di Donetsk, non sono mai riuscite a occuparlo per intero. Importanti centri urbani e industriali come Kramatorsk, Sloviansk e Kostjantynivka restano sotto controllo ucraino, formando il cuore di una linea difensiva pesantemente fortificata che impedisce a Mosca di rivendicare una piena vittoria a Donetsk e di avanzare ulteriormente verso la regione di Dnipropetrovs’k. Questa occupazione solo parziale ha generato anche problemi pratici per il Cremlino, in particolare sul piano dell’approvvigionamento idrico del Donbas. Le principali infrastrutture idriche, che hanno origine nel territorio controllato da Kyiv nei pressi di Sloviansk, restano infatti fuori dalla portata russa. Di conseguenza, Mosca fatica a garantire un accesso stabile all’acqua potabile e industriale nelle aree occupate della regione di Donetsk.
Il risultato più tangibile conseguito dalla Russia sul campo di battaglia dal febbraio 2022 è stata la conquista di vaste aree dell’Ucraina meridionale, incluse Mariupol e Melitopol, consolidando così la continuità territoriale con la penisola di Crimea. Tuttavia, se rapportato ai costi sostenuti, questo guadagno appare illusorio: Mosca ha perso più di un milione di soldati tra morti e feriti e ha bruciato risorse immense solo per mantenere il controllo di aree devastate e delle rovine di città come Bakhmut e Avdiivka, luoghi che prima della guerra erano sconosciuti alla maggioranza dei russi. Inoltre, non è riuscita a conquistare neppure un grande centro regionale: persino Kherson, occupata temporaneamente, è stata liberata dalle forze ucraine nel novembre 2022.
Un altro obiettivo centrale dell’invasione era riaffermare lo status della Russia come grande potenza, dimostrando la capacità di dettare gli assetti di sicurezza non solo nello spazio post sovietico ma in tutta l’Europa. Anche in questo caso, però, il Cremlino ha fallito. L’aggressione, invece di piegare l’Ucraina e l’occidente alla volontà di Mosca, ha rivitalizzato la Nato, ne ha allargato i confini con l’ingresso di Finlandia e Svezia e ha spinto gli stati europei a incrementare drasticamente spese e cooperazione in materia di difesa. Prima del 2022, solo 7 dei 30 paesi membri rispettavano la linea guida dell’Alleanza che prevede di destinare il 2 per cento del pil alla difesa, con molte nazioni dell’Europa occidentale restie a investire seriamente nei propri eserciti. Tra il 2024 e il 2025, invece, la situazione è radicalmente mutata: oltre 20 stati hanno già superato la soglia del 2 per cento, e altri sono in procinto di raggiungerla a breve. Questo aumento senza precedenti delle spese militari è uno degli indicatori più chiari di come la guerra di Mosca abbia prodotto l’effetto opposto a quello desiderato, rafforzando – anziché indebolire – la potenza collettiva della Nato.
Questo declino è visibile non solo in Europa, ma anche nello stesso vicinato della Russia. Nel Caucaso meridionale, la posizione di Mosca si è indebolita in modo drammatico: l’Armenia si è allontanata dalla Russia dopo il fallimento nel garantire sicurezza contro l’Azerbaigian, mentre allo stesso tempo si sono incrinati anche i rapporti con Baku; e la Turchia ha assunto un ruolo sempre più rilevante nella cooperazione e nella mediazione regionale, scalzando l’ex predominio russo. Invece di proiettare forza, la guerra ha messo in luce i limiti dell’influenza di Mosca, riducendola a una potenza reattiva, costretta a difendere faticosamente le proprie posizioni pregresse.
Se la Russia ponesse fine alla guerra ora, cosa potrebbe mai presentare Putin ai propri concittadini come una vittoria? Si troverebbe di fronte all’impossibile compito di spacciare guadagni territoriali limitati e costosi – ottenuti al prezzo di più di un milione di vittime, sanzioni devastanti e isolamento internazionale – come un trionfo storico. A questo si aggiunge l’economia di guerra che ha intrappolato la Russia in un circolo vizioso: porre fine al conflitto significherebbe esporre la fragilità del sistema economico e la vuotezza della mobilitazione bellica, mentre proseguirlo comporta il rischio di ulteriore esaurimento e stagnazione.
In questo contesto, il Cremlino sembra considerare sempre più preferibile esportare instabilità anche in Europa – attraverso operazioni ibride, minacce e pressioni militari dirette – piuttosto che restare confinato in uno stallo logorante e costoso in Ucraina. Una tale escalation potrebbe poi essere presentata all’opinione pubblica interna come dimostrazione della forza russa, contando sul fatto che la reazione occidentale si limiti ancora una volta alle consuete espressioni di “profonda preoccupazione”, che la propaganda di Mosca trasformerebbe facilmente in segno di debolezza. Per Putin, la guerra è ormai divenuta lo strumento unico per mantenere il potere: fermarla non rientra nei suoi piani. Al contrario, appare determinato a proseguirla e, possibilmente, ad ampliarla. La vera domanda, dunque, non è se la Russia si fermerà, ma se l’occidente permetterà a Putin di portare avanti la guerra contro l’Ucraina e di intensificare l’escalation senza limiti.