Caso Kirk, antisemitismo, Putin. Smascherare chi alimenta i virus illiberali che minacciano l’occidente

Contro i professionisti della minimizzazione. Ecco perché chiudere gli occhi di fronte a chi mette la propria ideologia al servizio della demonizzazione della società aperta significa dare un contributo all’erosione della nostra libertà

Sappiamo forse cosa stiamo combattendo, ma sappiamo davvero cosa stiamo difendendo? La tendenza delle opinioni pubbliche occidentali, di fronte a fatti enormi che turbano gravemente le nostre coscienze, è spesso quella di minimizzare, è spesso quella di contestualizzare, è spesso quella di considerare degli atti gravi e violenti come se questi fossero necessariamente frutto di una pazzia passeggera, facilmente circoscrivibile. E’ capitato ieri, dopo l’uccisione a sangue freddo di Charlie Kirk, attivista Maga, fondatore di Turning Point Usa, aperto al dialogo con i suoi avversari, quando gli odiatori del trumpismo hanno velocemente archiviato il gesto dell’omicida come il semplice atto di un pazzo, e la tendenza è visibile di continuo, a destra e a sinistra, quando le violenze risultano complicate da mettere a fuoco. Capita a destra, quando un suprematista trasforma in azioni le proprie parole. Capita a sinistra, quando un progressista trasforma in violenza i propri pensieri. Capita a sinistra quando un islamista compie un atto di terrore, e la violenza islamista da sinistra è sempre frutto della violenza di un singolo, non di un’ideologia. Capita a destra, quando uno xenofobo trasforma la propria fede politica in un gesto di violenza, colpendo il malcapitato migrante di turno. E capita ancora più spesso ogniqualvolta in giro per il mondo un ebreo viene colpito in quanto ebreo: che volete che sia, in fondo, è solo un pazzo, nessuna ideologia, è solo un episodio isolato.

Le opinioni pubbliche, quando si trovano di fronte a una violenza che parla una lingua non così estranea al proprio lessico, tendono a cambiare pagina rapidamente, a passare al prossimo tema, a lanciare il prossimo servizio. O, viceversa, quando considerano una violenza figlia di un linguaggio politico sovrapponibile a quelle degli avversari tendono a trasformare quegli atti in manifesti politici attraverso i quali alimentare la spirale dell’estremismo: non è un caso singolo, sono tutti così a sinistra. Non è un caso singolo, sono tutti così gli xenofobi. Non è un caso singolo, sono tutti così i suprematisti. Non è un caso singolo, sono tutti così gli islamisti.

La violenza chiama violenza, ed è persino banale dirlo, ma nelle minimizzazioni degli atti violenti che arrivano da una parte e dall’altra dello schieramento, quando la violenza si trasforma per un istante nello specchio delle proprie idee, quelle più recondite, meno confessabili, solo a volte esplicitabili, vi è un problema diverso dall’indignazione a targhe alterne e vi è la perdita di una consapevolezza che dovrebbe essere unitaria e che riguarda parte degli atti violenti che stanno sconvolgendo l’occidente libero. Sappiamo cosa stiamo combattendo, forse, ma sappiamo anche cosa stiamo difendendo? L’incapacità, o se volete la riluttanza, nel riconoscere la natura profonda dell’odio che attraversa il nostro tempo è legata a un meccanismo di rimozione: si tende a trattare i fatti come singoli episodi, quando invece appartengono a un ecosistema dell’odio politico che attraversa tutto l’occidente. Un odio all’interno del quale, senza protezioni, senza vaccini, senza antidoti, possono proliferare antisemitismo, xenofobia, complottismo, neutralità indulgente nei confronti della Russia, e chissà, a proposito di Russia, dove sono finiti i cialtropacifisti che scendono in piazza quando l’Europa si riarma e tacciono invece quando la Russia sconfina nei territori della Nato. Un odio, si diceva, che per essere governato deve essere studiato, anche quando è doloroso farlo, per tentare l’unica operazione possibile e necessaria: smascherare chi alimenta il virus illiberale che minaccia l’occidente. Trovare un filo conduttore negli orrori che ci offre la timeline quotidiana della nuova violenza politica non è semplice ma un tratto ricorrente esiste: chiudere gli occhi di fronte a chi mette la propria ideologia al servizio della demonizzazione della società aperta significa dare un contributo all’erosione della nostra libertà. Sappiamo forse cosa stiamo combattendo, ma sappiamo davvero cosa stiamo difendendo?

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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