Baku Steel si è ritirata. Ora restano solo il fondo finanziario americano Bedrock e Jindal a volere lo stabilimento. E il ministro Urso per giustificare l’uscita degli azeri dà la colpa al sindaco di Taranto che non vuole il rigassificatore
Baku Steel, la piccola azienda siderurgica dell’Azerbaigian, vincitrice lo scorso marzo della gara per la vendita di Ilva, si è ritirata e non parteciperà al nuovo bando, indetto proprio durante le trattative per la vendita a Baku Steel. Secondo il ministro Urso, la nuova gara si è resa necessaria per inserire clausole più stringenti sul piano della decarbonizzazione. La verità però non la sappiamo, dato che il testo del bando non è pubblico ed è su lettera d’invito. Certo, non si era mai visto che, con un vincitore già assegnato, il governo decidesse di ritirare tutto e rifare la gara: non è una buona cartolina per gli investitori che guardano al nostro paese. Tanto meno che sia lo stesso governo a indicare i piani industriali. E infatti il presentimento (lo abbiamo scritto già a maggio, prima della nuova gara) è che quel piano non stesse in piedi e che Baku non fosse in grado di realizzare l’investimento. Del resto, non si capisce come un’azienda che produce 800 mila tonnellate d’acciaio con 2.000 dipendenti in Azerbaigian possa acquisire un gigante da 8 milioni di tonnellate con 11.000 dipendenti. Nonostante l’aiuto del governo azero.
Per non ammettere chiaramente il fallimento della prima gara, il governo ha addotto prima la scusa dell’altoforno inaugurato da Urso e poi sequestrato dalla procura dopo un incendio (errore imputato alla gestione commissariale) dopo soli sei mesi; poi quella del tribunale di Milano che avrebbe chiuso l’impianto senza autorizzazione ambientale; infine quella degli enti locali che non volevano firmare l’accordo e non volevano il rigassificatore necessario per realizzare il DRI (Direct Reduced Iron, ferro ridotto diretto) e alimentare gli impianti. Nel piano di Urso, infatti, sono previsti più altoforni a Taranto, un impianto a Genova e tre impianti di DRI con annessi rigassificatore, dissalatore e impianto di cattura della CO₂. Un piano da 9 miliardi di euro per il quale era difficile immaginare un investitore disposto a metterli su Taranto. A quel punto Urso ha iniziato a dire che il DRI lo avrebbe fornito lo Stato (con quali costi), magari cercando un privato come socio, e che per ILVA erano disponibili 700 milioni da vecchi finanziamenti. Ma oggi ILVA, con la gestione commissariale, perde 100 milioni al mese e il debito degli ultimi anni ammonta a più di 5 miliardi. Nel frattempo lo Stato continua a finanziare prestiti-ponte senza aver mai restituito i precedenti. E c’è pure chi, come i sindacati e il Pd, propone di nazionalizzarla. Basterebbe leggere la bella inchiesta pubblicata la scorsa settimana su l’Espresso sui costi sostenuti da DRI Italia, la società pubblica (di cui Urso ha appena sostituito i vertici nominando due fedelissimi FdI) nata proprio per realizzare il preridotto: un pozzo senza fondo, con milioni di euro spesi in consulenze e stipendi senza aver prodotto nulla. Ma altrettanto si potrebbe dire delle due amministrazioni straordinarie in corso.
Il discorso, per fortuna, non si pone: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non ha intenzione di buttare 9 miliardi di euro per perdere voti, dato che, oggettivamente, Ilva non la vuole più nessuno. Nemmeno i lavoratori che, in questi 12 anni, hanno imparato che la cassa integrazione con integrazione salariale e welfare non gliela toglierà mai nessuno. Ed è sempre meglio che lavorare in cokeria.
Tornando alla gara: ora, con Baku fuori, restano solo il fondo finanziario americano Bedrock e Jindal. La scorsa settimana, due giorni dopo che Urso ha annunciato l’accordo con le istituzioni genovesi per il forno elettrico, il gruppo Jindal ha avuto a Genova un incontro privato con il sindaco (mentre non ha mai incontrato il sindaco di Taranto) e ha detto che il forno elettrico a Genova non lo farà, smentendo il piano di Urso. La gara, che doveva chiudersi il 15 settembre, verrà rinviata.
Il ministro, per giustificare l’uscita di Baku, ora dice che è colpa del sindaco di Taranto che non vuole il rigassificatore. Ma non aveva detto che lo faceva a Gioia Tauro? Perché Baku non va lì? E’ ormai evidente che, se si continua così, l’Italia perderà per sempre l’acciaio integrale. Un colpo durissimo per il paese, di cui però nessuno — né al governo né all’opposizione — sembra interessarsi. L’unico che da qualche mese ha inquadrato bene la situazione è l’ex ministro Andrea Orlando: “Passano le settimane e cresce l’impressione che il ministro Urso, nell’impossibilità di trovare degli investitori che vogliano realizzare complessivamente il piano che ha formulato per le aree Ilva, stia cercando dei capri espiatori, qualcuno su cui fare scaricabarile”. Frase pronunciata prima di sapere dell’abbandono di Baku Steel.