Tra minerali, migranti e accordi, Trump getta gli occhi sull’Asia centrale

Messa la spunta sul Caucaso dopo aver mediato alla Casa Bianca la storica intesa tra Azerbaigian e Armenia, gli Stati Uniti puntano a rafforzare la loro presenza in Asia centrale, sfidando l’influenza russa e l’ascesa cinese. Tashkent si conferma snodo strategico

Appena rientrato dal viaggio che, insieme agli altri leader dell’Asia centrale, l’ha portato in Cina da Xi Jinping per il summit della Shanghai Cooperation Organization (Sco) e la parata militare di Pechino, il presidente dell’Uzbekistan Shavkat Mirziyoyev ha alzato la cornetta. Dall’altra parte della linea non il solito Vladimir Putin – la Russia gode ancora di una fortissima influenza politica nella regione – ma Donald Trump. La chiamata è avvenuta a pochi giorni dalla conclusione della visita ufficiale in terra uzbeka di Paolo Zampolli, inviato speciale degli Stati Uniti per i partenariati globali, che si è caratterizzata per vari incontri ad altissimo livello – con lo stesso Mirziyoyev – e un tema principale: i progetti statunitensi sul fronte dei minerali critici.

La telefonata è stata anche oggetto di un piccolo caso diplomatico. Parlando con un giornalista che gli chiedeva se prendesse in considerazione l’ipotesi di visitare il Kazakistan in futuro, Trump ha risposto affermativamente aggiungendo che il leader kazaco, Kassym-Jomart Tokayev, è “un grande uomo” e di aver avuto una conversazione telefonica con lui. La notizia è rimbalzata a livello internazionale ma nessuna conferma ufficiale in merito al fantomatico colloquio né da parte kazaca né tantomeno da parte statunitense è mai arrivata. Scenario più probabile: l’inquilino della Casa Bianca ha parlato di Kazakistan pensando di parlare di Uzbekistan.

Gaffe a parte, lo scorso marzo il governo uzbeko ha lanciato un’iniziativa da 2,6 miliardi di dollari per puntare sul fronte minerario. Un piano sviluppato anche con uno sguardo agli Stati Uniti, considerando la concomitanza della spinta di Trump su questo fronte. Va detto, però, che la cooperazione lungo l’asse Tashkent-Washington è di più lunga data, visto che la firma di un’intesa di massima tra le due parti per la collaborazione in termini di materie prime è del settembre 2024, l’ultimo periodo del mandato di Joe Biden. L’attuale Amministrazione statunitense vuole continuare sullo stesso percorso. Lo dimostra anche, allargando leggermente lo sguardo sulla cartina geografica, il contratto da 500 milioni di dollari appena siglato dall’azienda US Strategic Metals con il governo del Pakistan per lo sviluppo del comparto minerario del paese asiatico. Tashkent sembra intenzionata a stendere i migliori tappeti rossi agli Stati Uniti, come dimostrerebbe anche il pagamento dei trasferimenti aerei con cui i migranti uzbeki irregolarmente sul territorio statunitense vengono riportati nella repubblica centro asiatica. L’ultimo volo, con 39 persone a bordo, è di pochi giorni fa e negli ultimi mesi sono stati più di 600 gli immigrati rimpatriati con questa modalità. L’Uzbekistan sta recuperando terreno nei confronti del Kazakistan, gigante economico regionale con cui la competizione geopolitica è silente ma sempre presente. Basti pensare al fatto che il Kazakistan è l’unico paese centroasiatico a essersi visto applicare da Trump dazi al 25 per cento, più alti del livello base del 10 per cento.

A risaltare, come è evidente da questa catena di eventi, è anche il tempismo. Messa la spunta sul Caucaso dopo aver mediato alla Casa Bianca la storica intesa tra Azerbaigian e Armenia, Trump dimostra che gli Stati Uniti vogliono tornare a giocare un ruolo, per ora principalmente a livello commerciale, in Asia centrale: è lo scenario migliore per le cancellerie regionali, che proprio dall’avere a disposizione un gruppo composito di potenziali partner traggono uno dei loro punti di forza. La Russia sta sempre più stretta ma Mosca non può essere accantonata e la Cina sta alzando l’asticella della sua presenza nell’area, puntando sulla stabilità dei regimi regionali e l’affinità politica che li lega a Pechino. Il vero elemento di rottura potrebbe essere una visita di Trump in Asia centrale, dato che nessun presidente americano in carica vi si è mai recato. Vedremo se, al netto della confusione sui nomi dei paesi, sarà lui a compiere questo passo.

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