Dall’arte alla letteratura, nessun evento è mai stato evocato con tanta efficacia come la Passione di Cristo. Anche il filosofo più materialista e ateo è costretto a convenire che dopo il Calvario nulla è stato come prima
Una volta emessa la condanna a morte, la procedura segue il suo corso. Alcuni autori, oltre ovviamente a quelli che hanno negato l’esistenza stessa di Gesù, hanno dubitato della sua crocifissione. E’ un dubbio infondato per varie ragioni. La prima, che di essa parlano autori non cristiani, come Tacito e Flavio Giuseppe. La seconda è la ripetuta attestazione di Paolo, che visse durante quel periodo. E la terza, che se lo stesso Paolo, e i giudei, avessero voluto inventarsi un supplizio per il Signore, ne avrebbero scelto uno diverso e meno infamante: la croce era infatti ignominiosa per gli ebrei ancor più che per i romani, in base alla maledizione biblica nei confronti “di colui che è appeso al legno” (Deut. 21,23) .
Sul supplizio e la morte di Gesù i Vangeli inseriscono alcuni dettagli diversi, di profondissimo valore teologico ma di scarsa importanza storica. L’oscuramento del cielo, la lacerazione del velo del tempio, i terremoti, la resurrezione dei defunti e altri miracoli sono tutti eventi che devono essere recepiti nel loro significato simbolico, respingendo le grossolane ironie razionalistiche dei critici più radicali. Ma nella sostanza, i quattro evangelisti concordano nel descrivere l’esecuzione della pena. Una pena terribile, che Cicerone definiva “crudelissimum teterrimumque supplicium”: il più crudele e odioso dei supplizi. Probabilmente il nostro amabile avvocato ignorava quello inventato dai persiani per i regicidi, chiamato “le barche”, che per decenza non trascriviamo: il curioso lettore può trovarne la descrizione in Plutarco. Comunque era una morte atroce, riservata agli schiavi turbolenti e ai provinciali ribelli. I cittadini romani ne erano esenti, proprio per la vergogna che accompagnava la sofferenza del condannato.
La crocifissione era preceduta dalla tortura supplementare della flagellazione, che riduceva il corpo a una massa sanguinolenta, idonea ad attirar insetti e rapaci durante l’agonia. Dopo questa propedeutica sevizia, sulle spalle della vittima era caricato il patibulum, una trave pesante che sarebbe stata posta trasversalmente sul palo (stipes), formando una sorta di T. Così oppresso, il morituro doveva trascinarsi fino al luogo dell’esecuzione, che i Vangeli chiamano Golgotha, o luogo del cranio. E’ inutile sforzarsi di identificare, ai giorni nostri, questo sito macabro e sacro. Dopo le distruzioni di Tito e soprattutto di Adriano, la topografia originaria di Gerusalemme non è più ricostruibile. Durante il tragitto, il condannato era sottoposto allo sguardo sprezzante dei soldati e a quello, più pietoso della folla. Non dobbiamo mai dimenticarci che i romani, come tutte le truppe di occupazione, erano temuti dalle gerarchie ma odiati dal popolo, che simpatizzava spontaneamente per tutti i patrioti che subissero, per qualsiasi ragione, le vessazioni dello straniero. Se il poveretto cadeva, qualche presente era chiamato ad aiutarlo. L’episodio del Cireneo, malgrado le obiezioni di Reinach e pochi altri, è ritenuto generalmente attendibile. Il fatto che Giovanni non ne faccia menzione non significa che non sia accaduto. Al contrario: è perfettamente logico che, davanti a un martire sofferente dei tormenti romani, un ebreo impietosito si sia offerto di risollevarlo. Lo stesso Luca aggiunge che “Gesù era seguito da una gran folla di gente e da donne che si battevano il petto e si lamentavano di lui” (Lc 23,27) . E’ la stessa folla che dopo la crocifissione, se ne ritornò “battendosi il petto”, ed è in linea con il consenso, per non dire l’entusiasmo, sollevato da Gesù fin dal suo ingresso a Gerusalemme, anche se contrasta con l’attitudine ostile dimostrata davanti a Pilato. Arrivato sul Golgotha , il “patibulum” fu attaccato trasversalmente allo “stipes”, e Gesù fu inchiodato mani e piedi. Talvolta, è vero, i chiodi venivano sostituiti da corde, ma non v’è ragione di dubitare della versione evangelica. Poiché la morte intervenne in un lasso di tempo estremamente breve, essa fu dovuta alle emorragie delle varie ferite. Con lui furono giustiziati due individui, che la nostra tradizione chiama ladroni. E’ un’espressione impropria: Marco e Matteo li definiscono “lestài”, cioè banditi, o, secondo altri, “sovversivi” (Mc 15,27; Mt 27,38). Luca li chiama “kakourgoi”, cioè “criminali “o malfattori”. L’uso di questi termini ha indotto molti critici a ritenere che si trattasse di due zeloti, rivoluzionari catturati durante una delle tante rivolte che affliggevano la Palestina occupata. E’ ovviamente una tesi plausibile anche se non dimostra affatto, come abbiamo ripetutamente affermato, che anche Gesù appartenesse a questa organizzazione.
Secondo Marco il supplizio iniziò all’ora terza, e al sofferente furono offerti vino e mirra (Mc 15,23). Era infatti usanza che le pie donne di Gerusalemme, soprattutto quelle più in vista, porgessero ai moribondi questa sorta di blando analgesico. Matteo, al posto della mirra, sostituisce il fiele, (Mt 27,34) propinato dai soldati romani come estrema forma di crudele disprezzo. La versione marciana è ritenuta più attendibile. Sempre secondo Marco, all’ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona, quando Gesù spirò, esclamando “Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 33-34). Matteo vi aggiunge i prodigi dei terremoti e delle resurrezioni. Luca concorda sui tempi, ma si discosta su due punti: il primo riguarda i criminali crocifissi assieme Gesù, uno dei quali si pente e riceve in cambio la promessa del paradiso; il secondo riguarda le parole di Gesù: non più un grido disperato ma uno più confidente: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 37, 46). Giovanni, infine, riporta parole differenti: “Ho sete”, e poi: “Tutto è compiuto” (Gv 19, 28-30)
Prima del tramonto, il corpo fu tolto dalla croce, e con l’autorizzazione di Pilato (Mc 15,42-47; Lc,23,52; Mt 27,58) fu affidato a Giuseppe d’Arimatea, per una onorata sepoltura secondo l’uso ebraico. Questa circostanza è importante perché chiude definitivamente la polemica sulla responsabilità dell’esecuzione. Se infatti fosse stata attuata dagli ebrei, il consenso del governatore sarebbe stato superfluo. Il fatto che Pilato abbia chiesto conferma al centurione della morte così rapida di Gesù, aggiunge credibilità al racconto. Questa verifica avveniva spezzando le gambe delle vittime: se qualcuna fosse stata ancora in vita, la morte sarebbe intervenuta per collasso, perché l’intero peso sarebbe gravato sulle mani, impedendo il respiro. A Gesù l’umiliazione fu risparmiata, e fu sostituita da un “colpo di lancia” (Gv 19,34). Giovanni ne enfatizza l’aspetto profetico, e in un certo senso completa la narrazione sinottica. “L’autore del quarto vangelo – scrive Loisy – è un meraviglioso artista che raggiunge i più grandi effetti con i procedimenti più semplici. Ha riempito questo quadro artificiale con degli elementi presi qua e là dai vangeli anteriori, ha ornato il suo racconto di parole profonde, e ne ha fatto un dipinto che è, in un certo senso, più vero della storia, perché ne contiene la filosofia ed è più ricco di insegnamenti”.
Sarebbe in effetti un esercizio ozioso e irriverente esplorare nei dettagli le ultime ore della vita di Gesù. Anche se la sua croce non fu quella della nostra iconografia, e le sue parole sono state riportate in modo inesatto, basterebbero i dipinti di Giotto, di Grunwald e di Rembrandt, e le musiche di Bach e di Haydn, per farci intuire la maestà di quella scena tanto atroce quanto edificante. Da duemila anni, nessun evento è mai stato evocato con tanta efficacia nei settori del pensiero, dell’arte e della letteratura come la Passione di Cristo. Nel suo significato teologico, essa ha costituito la più grande rivoluzione religiosa dell’umanità. Per lo storico essa rappresenta la cesura tra due ère, e anche il filosofo più materialista e ateo è costretto a convenire che dopo il Calvario nulla è stato come prima.
Alla fine di questa temeraria ricerca, condotta con umiltà sul centinaio di testi considerati oggi più autorevoli, e con la consapevolezza di averne trascurati altrettanti che li smentiscono, possiamo concludere che i fatti di cui abbiamo ragionevole certezza sono i seguenti: Gesù fu arrestato da militari romani (Gv 18,12) per ragioni politiche (Mc 14,48) e quindi condotto davanti a un’autorità giudaica locale (Mc 14,53; Lc 22,54; Gv 18,13) durante la stessa notte. Il giorno seguente, dopo una breve delibera di questa autorità (Mc 15,1; Lc 22,66) fu riconsegnato ai romani per il processo (Mc 15,1b; Lc 23,1; Gv 18,28). Il prefetto lo condannò a morte per crocifissione (Tacito; Mc 15,15b; 26) e la sentenza fu eseguita secondo la procedura romana. (Mc 15,15b; 24,27).
A fronte di queste “ragionevoli certezze”, e tenendo presente che Voltaire definiva anche le verità storiche universalmente accettate come delle mere probabilità, stanno altrettante questioni sulle quali possiamo solo congetturare. Ma prima di riepilogarle, occorre ricordare un dato fondamentale: il fatto che Gesù sia stato arrestato e giustiziato per motivi politici non significa affatto che la sua predicazione e i suoi intenti fossero tali. Al contrario, la lettura complessiva dei Vangeli, anche depurata delle interpolazioni redazionali e di quello che Bultmann chiamava il “soprannaturale magico”, ci convince che il Regno di Dio, o Regno dei Cieli, aveva per Gesù una dimensione esclusivamente escatologica e trascendente, e prescindeva da qualsiasi intento eversivo volto a turbare l’ordine costituito. Nel predicare l’imminenza di questo Regno, di cui molti tra i viventi avrebbero visto l’avvento, Gesù ne affidava l’instaurazione alla imperscrutabile volontà del Padre, e al contempo invitava i proseliti ad anticiparne il compimento, attraverso una radicale rigenerazione morale.
In conclusione, Gesù non era affatto uno simpatizzante zelota, come Brandon lo definisce, e il fatto che nella sua schiera l’evangelista citi la presenza di uno di questi esaltati facinorosi, dimostra che tutti gli altri non condividevano una simile aspirazione sovversiva. E forse fu proprio la delusione di uno o più dei suoi seguaci, inizialmente convinti che il proselitismo del Maestro fosse indirizzato alla rivolta politica, ad abbandonare Gesù e probabilmente a tradirlo. E tuttavia questa dimensione teologica, che costituisce la vera rivoluzione del cristianesimo e che ora diamo per scontata, non fu affatto percepita come tale dall’establishmentdi Gerusalemme, e ancor meno dall’autorità romana. La predicazione messianica, nella tradizione giudaica, era intimamente connessa a una affermazione nazionalistica, a maggior ragione quando il popolo gemeva sotto la dittatura straniera. Le ricorrenti rivolte del primo secolo, che culminarono con la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, erano quasi sempre ispirate da predicatori apocalittici che trovavano terreno fertile in una popolazione infelice e umiliata. Nei confronti di questi agitatori, i romani agivano con rapidità ed efficacia. I nomi di Varo, Coponio, e dello stesso Tito sono associati a esecuzioni di massa quali si sarebbero viste, duemila anni dopo, solo con il nazismo. Durante l’assedio di Gerusalamme le fonti oscillano tra le seicentomila e un milione di vittime, e concordano che non vi erano più alberi per le crocifissioni. Ogni affermazione di regalità, prima ancora di tradursi in azione armata, era vista come un crimine da parte romana e come un pericolo da parte del Sinedrio. Consapevoli della inevitabilità di una brutale repressione, i sacerdoti e gli anziani tendevano ad anticipare l’intervento del governatore, segnalando i soggetti più pericolosi. L’entrata di Gesù a Gerusalemme in un’atmosfera di esaltazione, e la sua successiva irruzione nel Tempio per cacciarne i mercanti, coniugandosi con le dichiarazioni del Galileo di voler instaurare un Regno nuovo saranno state un buon motivo per indurre Caiafa e compagni ad avvertire Pilato che loro erano estranei a questa propaganda, e che era consigliabile un intervento preventivo dello stesso governatore. Così si spiega la frase dello stesso Caiafa, “Voi non capite nulla e non considerate che a noi conviene che un solo uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione (Gv 50)”.
Nella sua visione spirituale e trascendente Gesù non si curò di quanto gli stava accadendo attorno. Proiettato esclusivamente verso la Città di Dio, ignorò le leggi che reggevano quella degli uomini, e ne divenne la vittima. Ne fu una vittima consapevole? Per lo storico la domanda è senza risposta, ma per il cristiano è chiara ed univoca: non solo ne fu pienamente cosciente, ma ne fu promotore volontario, affinché si compisse il disegno divino della Redenzione. Ecco perché la ricostruzione “laica” del processo a Gesù non può influire sulla fede, anche quando questa ricostruzione smentisce in parte quella evangelica. Le risposte che Gesù diede a Pilato costituiscono, da sole, la riprova che Gesù sapeva e voleva che il suo destino si compisse sulla croce, anche se l’accusa che gli era rivolta non era solo ingiusta, ma gli era indifferente.
Qui ci fermiamo, esausti ed incerti, perché sappiamo che per lungo tempo montagne di libri saranno ancora scritti con conclusioni diverse ed opposte. Ernest Renan, che da abate iniziò queste ricerche per corroborare la sua vocazione, e che alla fine la perdette, riassume comunque il sentimento suscitato dalla straordinaria personalità di Gesù, cui dedicò le parole più belle: “Riposa dunque nella tua gloria, nobile iniziatore. La tua opera è compiuta, la tua divinità è fondata. Mille volte più vivente, mille volte più amato dopo la tua morte che nei quaranta giorni del tuo passaggio terreno, diventerai a tal punto la pietra angolare dell’umanità, che strappare il tuo nome da questo mondo sarebbe farlo crollare dalle fondamenta. Tra Te e Dio, non si farà più distinzione. Totalmente vincitore della morte , prendi posto nel Tuo regno, dove ti seguiranno, lungo la via regale che tu hai tracciato, secoli di adoratori”. (5. fine)
È il processo più noto e più misterioso della storia. Si verificò circa duemila anni fa, a Gerusalemme. Imputato: Gesù Cristo, un predicatore poco più che trentenne che si riteneva figlio di Dio. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia, di raccontare in cinque puntate quei momenti e ciò che li accompagnò, mettendone in luce le stranezze, le imprecisioni, le certezze. La prima puntata, “L’imputato è il figlio di Dio”, è uscita l’8 agosto, la seconda, “Un mistero chiamato Giuda”, il 15. La terza, “Davanti al Sinedrio”, il 22. La quarta, “Volete lui o Barabba?”, il 29.