Al Festival della mente “ci sono moltissimi giovani che sembrano davvero appassionati. Può essere l’effetto Barbero, che ha un pubblico davvero trasversale” dice la direttrice Benedetta Marietti. La crisi della cultura e dell’editoria è reale?
Città natia di tre papi (in primis il bibliofilo Niccolò V), terra napoleonica e naturale capoluogo di una mai realizzata regione lunigianense, Sarzana ormai è famosa per il suo festival, quel “Festival della mente” che esiste da oltre un ventennio. Le strade, che ormai hanno perso le sue celebri botteghe antiquarie, sono piene di quel ceto medio riflessivo che andava tanto di moda nell’èra berlusconiana, quell’esercito di prof delle medie col programma evidenziato per non perdere nemmeno un incontro. Un Lucca Comics per post-girotondini che cercano il Vangelo laico nel trittico dell’expertise televisiva Barbero-Recalcati-Lingiardi, un Coachella dell’istruzione e della cultura, tra grecisti e fisici e musicologi, gente che sa parlare alla gente di cose complicate con passione (parola chiave). Certo, tante teste bianche e tante montature colorate, ma, ci dice la direttrice Benedetta Marietti, rispetto a quando ha preso il timone dieci anni fa, “la buona notizia è che si è abbassata l’età dei partecipanti, prima era un pubblico agée ora ci sono tanti giovani”.
E si vedono, che prendono appunti, e sembrano davvero appassionati, e forse lo sono. Il festival come alternativa estiva alla scuola per chi vuole imparare anche ad agosto. “Può essere l’effetto Barbero”, dice la direttrice, “che ha un pubblico davvero trasversale”. Lo storico, diventato vera star col Covid, deve molto a Sarzana, luogo in cui ha iniziato a parlare alle folle. E ora ricambia, tornando come una vera rock star – e la gente nei bar parla di lui più di quanto non parli di Jovanotti (tra gli ospiti, che discute di natura insieme a Paolo Pecere). Ma non solo i vip da “Che tempo che fa”. Ci sono tanti ospiti meno noti, “persone competenti, talenti del loro campo, con capacità divulgativa senza banalizzare, restituiscono la complessità rendendola accessibile”, continua la direttrice. E tutto è sold out, lo sottolineano anche le locandine dei quotidiani locali. Standing ovation per Francesca Mannocchi, donne che zittiscono i bambini e maledicono le campane quando Matteo Nucci parla di Platone. “Un festival dominato dall’amore”, dice lo scrittore accolto da una folla con gli occhi a cuore. Agli eventi la gente che non riesce a entrare origlia da fuori e applaude poi alla fine, alzando in alto le mani, come all’Angelus o ai concerti. Tantissimi festival ormai, la provincia italiana è invasa, bisogna schivarli come i ciclisti sulle strade di collina. Ma Sarzana sa di essere “tra quelli storici”, e anche il premio Strega Donatella Di Pietrantonio – che dal palco ha appena spronato gli studenti a rivoltarsi contro il sistema – dice al Foglio: “Ci sono pochi festival che riescono a educare, Sarzana è uno di quelli”. Anche le guardie giurate battono le mani.
Ma quindi, questa crisi dell’editoria e della cultura è reale? Quel ceto medio riflessivo ginsborghiano esiste ancora? Forse Sarzana è una time-capsule, un luogo del metaverso in cui esiste ancora Fazio in Rai, in cui Santoro non è putiniano, in cui i padri si addormentano davanti a SuperQuark invece che scrollando su Facebook, in cui Repubblica è ancora guida morale di mezza Italia. Anche per i cinici fa effetto vedere la ressa nella libreria del festival, con gente in coda per prendersi saggi sui microorganismi degli oceani e romanzi di Albinati di due anni fa, come a un pop-up shop di Lububu. La sinistra riparta da Sarzana? Fuori, come in ogni situazione ormai, si vede una bandiera della Palestina che sventola. E’ un uomo solo con una vecchia maglietta della Cgil. Protesta, manifestazione, presidio, sit-in? No, il signore vende le bandiere, oltre a quella palestinese anche quella della Pace, fondi di magazzino degli anni bushiani dell’Iraq. Tutti lo ignorano e comprano supercoralli Einaudi.