La sinistra, che fino a 15-20 anni fa credeva di aver vinto, è afona e divisa di fronte a un mondo che sente estraneo perché cambiato. Il prezzo delle riforme, i regali politici alla destra, le virate sul moralismo. La lunga crisi e qualche prospettiva
Alle elezioni in Giappone avanza una destra nazionalista votata da giovani. Negli Stati Uniti a quasi un anno dalla vittoria di un Trump eletto da un voto in buona parte maschile, popolare e molto più di prima latino e nero, il Partito democratico è muto e la candidata che lo aveva guidato alle elezioni è scomparsa. A New York le primarie democratiche sono state vinte da un candidato che si dichiara socialista, mentre l’ex governatore e il sindaco democratici si presenteranno forse come indipendenti. Si potrebbe facilmente continuare, per arrivare infine a un’Italia dove i vecchi dirigenti del Partito democratico, non avendo più nulla da dire, hanno regalato il partito a un gruppo che non lo amava e che ha di fatto liquidato l’ipotesi veltroniana anche perché era possibile farlo.
Questo nuovo gruppo non sa che dire in politica estera, dove si limita a dichiarazioni moralistiche in una situazione tesissima che richiederebbe capacità di ragionamento e iniziativa (persino l’incontro di Washington non è stato di fatto commentato), e in politica interna appare prigioniero di una politica di alleanze priva di respiro e idee, che specie nel Meridione contribuisce a trasformare quel moralismo in una catastrofe clientelare rappresentata da cacicchi e compromessi che ne rappresentano l’opposto.
Nei paesi che si dicevano un tempo “avanzati” stiamo insomma assistendo da alcuni anni a un fenomeno di grande importanza, interesse e anche tristezza. Trenta o quaranta anni dopo la morte di una vecchia e composita destra – quella nazionalista, conservatrice, reazionaria, e anche fascista in Europa occidentale come pure quella repubblicana tradizionale, erede lontana del partito di Lincoln e di quello che aveva combattuto contro il New Deal negli Stati Uniti – uccisa dal “progresso”, a morire è oggi una sinistra “moderna e ragionevole” che fino a 15-20 anni fa credeva di aver vinto e che il mondo fosse suo.
Proprio perché sconfitta per prima e quindi costretta a impegnarsi dagli anni Settanta in un suo faticoso aggiornamento, la destra è perciò oggi dal punto di vista discorsivo – al di là della validità dei punti di questo discorso – più avanti di una sinistra che appare afona, come indica con impressionante nettezza Kamala Harris e confermano le contraddizioni di tanti suoi dirigenti europei.
La sinistra è inoltre profondamente divisa di fronte a un mondo che sente estraneo perché cambiato. Questa divisione non ha in sé nulla di strano. Come la destra, anche la sinistra è infatti sempre stata plurale, ben al di là del famoso dualismo tra riformisti e rivoluzionari che ignorava – impedendosi di capire il mondo – l’esistenza delle sinistre non socialiste, cristiane o liberali che fossero. Sono piuttosto le forme e le divisioni che separano le sue anime a essere cambiate, come dimostrano Mamdani, Adams e Cuomo a New York, Mélenchon o la parte della sinistra che ha trovato temporaneamente casa da Macron in Francia, e i Cinque stelle, i rossoverdi, il nuovo Pd o le convulsioni del riformismo in Italia.
Prima di parlarne è interessante ricordare ciò che abbiamo alle spalle a partire almeno da Bad Godesberg. Qui nel 1959 la socialdemocrazia tedesca abbandonò il marxismo, la classe operaia e la promessa di una trasformazione radicale nel futuro ridefinendosi come forza capace di correggere il capitalismo a favore del popolo sfruttando la ricchezza che esso produceva. L’illusione era che fosse solo il “capitalismo” (ma sarebbe stato meglio a dire mercato) a produrla e non una congiuntura demografica, sociale, tecnologia e politica straordinaria, la stessa che stava producendo i “miracoli”, un nome che avrebbe dovuto consigliare prudenza.
Da allora e per circa 30 anni vi sono stati quindi in Europa tre e non due socialismi (socialista erano infatti anche l’Urss e il suo blocco), visto che in Italia, ma anche in Francia o Spagna, quello riformista non accettò di deporre la speranza in un futuro diverso. Lo dimostrano la follia antieconomica della nazionalizzazione dell’Enel e della costruzione dell’Italsider di Taranto, ottenute dal Psi per varare il centro-sinistra; la retorica delle “riforme di struttura” o quella dei discorsi di Pertini e del primo Mitterrand, col suo programma trasformativo; ma anche il Craxi che sentì il bisogno di giustificare una svolta pragmatica rispolverando il socialismo astruso, radicale e radicalmente antisemita di un Proudhon probabilmente mai letto.
Fino al 1968, l’anno di Praga oltre che degli studenti e degli operai, la sinistra comunista restò invece aggrappata al mito sinceramente creduto (anche se forse non da alcuni dei suoi massimi dirigenti) della possibilità reale di una radicalità altra, incarnata dal sistema sovietico. Le era per questo possibile essere al contempo apocalittico-moralista, amministratrice – in attesa del diverso – di un potere locale ragionevolmente riformatore, e anche “mondo a parte” in cui un pezzo importante dell’Italia, inclusa quella intellettuale, viveva con una soddisfazione nutrita anche dal miracolo economico una emarginazione ritenuta pegno di un futuro migliore.
Questo mondo in un certo senso molto confortevole smise di esserlo dapprima in modo promettente: l’impegno del centrosinistra a riformare il paese sembrò dare ragione a chi, come il Pci, chiedeva in modo più conseguente quelle che sembravano e in fondo erano le stesse cose (più sviluppo nel Meridione, pensioni migliori, più case popolari, più nazionalizzazioni, un sistema sanitario nazionale, maggiori autonomie locali, più diritti sociali prima e anche individuali poi ecc.). Di qui le vittorie e le illusioni elettorali in un mondo dove però la promessa della diversità sovietica stava naufragando, e in cui le speranze suscitate dalla disumana rivoluzione culturale maoista potevano sopravvivere solo grazie alla più nera ignoranza.
In questo clima, segnato anche dalle agitazioni della “nuova” sinistra, il nuovo leader del Pci, Enrico Berlinguer, cominciò il veloce cammino con cui pose fine alla fede nella alterità sovietica. Avviato dai carri armati a Praga, esso fu segnato dal tentato assassinio in Bulgaria nel 1973, dal compromesso storico, dal sostegno indiretto del 1976 alla Nato e dal discorso di Mosca del 1977 sul valore universale della democrazia, e fu concluso dalla dichiarazione del fallimento della Rivoluzione d’ottobre nel 1981.
Berlinguer lo percorse, però, senza abbandonare la speranza nell’alterità. E proprio la radicalità della sua critica al socialismo reale aiuta a capirne il rifiuto di portare il Pci su posizioni socialiste, come chiedevano i riformisti del Pci guidati da Napolitano. Per Berlinguer quel socialismo – che era in effetti l’unico, come dimostrava Bad Godesberg che socialista non era più – era morto e abbracciarlo voleva dire consegnarsi al passato. Egli cominciò così a immaginare un’altra e radicale sinistra composta da pezzi (ecologismo, femminismo, pacifismo, diritti ecc.) tenuti insieme dal moralismo, che fanno di lui un precursore dell’ideologia woke della “nuova sinistra” statunitense.
Col senno di poi si potrebbe dire che Berlinguer si guadagnò così un futuro, cosa che il riformismo e la sinistra ragionevole non sono riusciti a fare, consumando nei decenni tra la tragedia di Craxi e l’emergere dei Cinque stelle la loro crisi innescata dalla fine di quelle condizioni straordinarie e dello sviluppo, dalla comparsa di una società nuova e invecchiata e dal tramonto dell’Occidente del 1945. E’ interessante aggiungere che un percorso simile ha fatto la sinistra democristiana, messa già negli anni Settanta e Ottanta di fronte al collasso della speranza in un nuovo Cristianesimo, come vide con lucidità Pietro Scoppola e capì bene Fanfani, il più influente politico dello sviluppo di un paese giunto – malgrado la guida democristiana – a un futuro radicalmente diverso da quello sperato, un futuro non amato di cui Berlusconi era il profeta e incarnava l’incubo.
Abbiamo da tempo compreso che nel 1989-1991 il crollo del socialismo sovietico travolse tutto il socialismo occidentale, dalle speranze di Craxi ai sogni dei comunisti, come Berlusconi intuì agitando con successo la minaccia di un comunismo che, come ripetevano attoniti oppositori credendo di irriderlo, non c’era più. Quella che stiamo capendo adesso è la crisi anche del riformismo in generale, consumatasi probabilmente con la crisi del 2008-09 ma accesasi già negli anni Novanta, quando i tentativi precedenti di mantenere in vita col debito pubblico un riformismo capace di “dare” costrinsero Giuliano Amato a varare un programma impopolare quanto necessario. La parola “riforma” assunse allora chiaramente per la prima volta (il precedente, non percepito, fu l’abolizione della scala mobile) un significato negativo, perché equivaleva a togliere qualcosa subito per essere in grado di continuare a dare qualcosa nel futuro.
E’ importante sottolineare che l’esperienza italiana, pur essendo, come confermò poi il berlusconismo, all’avanguardia della crisi degli stati “sociali” liberaldemocratici creati nel secondo dopoguerra, non ne fu però l’unica manifestazione. Più che il secondo Mitterrand, costretto a tornare sui suoi passi, bisogna pensare al Clinton che vinse le elezioni del 1992 con poco più del 40 per cento dei voti, grazie alla candidatura di Ross Perot, un imprenditore indipendente che sottrasse voti ai repubblicani. Solo due anni dopo, per la prima volta dopo sessant’anni di dominio democratico, un nuovo Partito repubblicano stravinceva le elezioni di Camera e Senato su un programma di riforma radicale dello stato sociale varato dal New Deal, l’evento storico che aveva creato l’agenda della sinistra ragionevole e anticomunista americana, che ebbe il suo canto del cigno con la Grande società di Johnson. Osservatori acuti, come il senatore Moynihan, vi videro il segno che la sinistra riformatrice aveva perso sia il programma che le idee, perché ad essere in crisi era la società che essa aveva costruito. Ed è in questo vuoto che si rafforzò allora e acquistò sempre più spazio una nuova sinistra identitaria, woke e anche apertamente socialista, che aveva le sue radici negli anni Sessanta e Settanta. Essa è poi andata vicina alla vittoria con Sanders e da poco ha conquistato il Partito democratico di New York.
La crisi ideale del riformismo italiano fu presto testimoniata dal governo Prodi – capace di portare l’Italia nell’euro ma non di elaborare e varare un programma riformatore di grande respiro semplicemente perché non avrebbe saputo da dove cominciare – e poi dal modo in cui affondò quello D’Alema, che pure aveva adottato una retorica riformista. La sinistra virava intanto, anche nei suoi candidati (un mio collaboratore, molto radicale, si torturava sul perché si prediligessero giudici e prefetti) verso legalità, ordine e perbenismo, probabilmente un segno della sua trasformazione nella parte, più che nel partito, delle persone perbene che vanno bene a scuola (detto senza malizia, perché tutti vorremmo avere a che fare con persone così, se non fosse che amano dirti come ti devi comportare…).
La nuova destra ebbe così in regalo prima la retorica della libertà, che era stata essenziale alla sinistra, poi quella della vita (con una lotta contro l’aborto non più in nome dei valori tradizionali ma del “diritto alla vita”) e quella della sicurezza, anch’essa un cardine della vecchia sinistra comunista come sanno tutti quelli che conoscono la storia, le pratiche e l’ideologia sovietiche. Come hanno indicato gli anni del Covid, gli è stato poi regalato anche il ribellismo non-conformista e da ultimo persino la lotta contro l’antisemitismo – ma questa è un’altra storia.
La questione essenziale resta però la prima: finito lo sviluppo, senza giovani e con una popolazione sempre più vecchia, in un mondo bianco che perde da decenni status e potere e si vede “invaso” da diversi che – superata una certa soglia – non vuole, il riformismo di una volta, quello appunto capace di migliorare il mondo grazie a energie e risorse apparentemente inesauribili, ha semplicemente perso la sua ragione. Lo ha fatto in Europa più che negli Stati Uniti, e in modo diverso da essi, anche perché la prima ha perso molto più terreno dei secondi. E siccome – tralasciando le scelte demagogiche che si pagano poi a caro prezzo – fare le riforme vuol dire ristrutturare per consolidare, e quindi anche togliere, le riforme sono diventate davvero una brutta parola, come si dice a Napoli. Chi le fa, sia che farle dica anche la verità, come Amato o Fornero, o menta, come Blair e Renzi, rischia di diventare oggetto di odio.
E’ per questo che il Pd riformatore, immaginato da un Veltroni generosamente, ma quanto ingenuamente! ottimista alla vigilia della crisi del 2008, è di fatto morto, come sono morti il Partito democratico del New Deal o il Partito socialista francese. Ed è questo che spiega la crisi, forse terminale, della socialdemocrazia tedesca o di quella svedese, e le difficoltà di un laburismo inglese che ha vinto “trionfalmente” le elezioni con meno del 34 per cento dei voti solo grazie al collasso degli indipendentisti scozzesi e a Farage, che ha tolto voti ai conservatori o oggi lo minaccia nei sondaggi.
In queste condizioni una nuova versione della sinistra radicale moralistica ha vita più facile perché promette qualcosa di altro e diverso e non si pone il problema di fare i conti con la realtà. Lo scontento per quest’ultima, che c’è ed è reale, e quindi per chiunque è chiamato a gestire il potere potrebbe persino aprirle la porta a una vittoria elettorale, anche perché non siamo più nel mondo “chiuso” della Guerra fredda che impediva ai comunisti in occidente di andare al potere.
La possibile vittoria di questa nuova sinistra dipende quindi dalla possibilità di una crisi, dalle difficoltà degli avversari e dalle capacità dei suoi leader. Certo è, però, che dopo la vittoria si aprirebbero tempi difficili, perché la promessa di un mondo diverso da raggiungere introducendo norme “giuste” e usando lo stato per realizzare un’uguaglianza il più possibile reale (che non è il programma dei vecchi comunisti, ma l’articolo 3 della Costituzione, che ha facilitato le riforme dei decenni successivi al miracolo ed è oggi un macigno sulla strada del realismo) è semplicemente irrealizzabile nelle condizioni date. E’ questo che spiega perché una Harris grande sostenitrice del wokismo sia diventata muta quando è stata costretta a parlare delle cose da fare, perché i democratici statunitensi non sanno cosa proporre, e perché Mamdani riempie il vuoto con un programma socialista (che certo è un programma, ancorché vecchio e fallito in decine di paesi e situazioni, ma non è mai stato quello dei democratici Usa) che porterebbe New York alla catastrofe ma che proclama con sicurezza quello che bisognerebbe fare. E questo senza parlare di una politica estera che costringe a scelte difficili oppure, almeno in Europa, condanna al declino e alla marginalizzazione, una strada peraltro ahimè facilmente percorribile.
La domanda è quindi se sia possibile costruire oggi una nuova sinistra ragionevole (uso “sinistra” perché la nostra legge elettorale, che non amo, lo rende necessario e perché risponde a una logica binaria che è tanto sbagliata quanto connaturata alla natura umana), capace di contrastare efficacemente la destra, facendo comprendere gli errori del suo discorso, e di contendere e strappare la leadership alla sinistra moralista. Si eviterebbe così anche il perpetuarsi dei successi di una destra cui le posizioni e le politiche di questa sinistra moralista, anche se temporaneamente vittoriose, inevitabilmente condurrebbero.
Penso lo si possa fare, ma naturalmente non so come. Credo però di aver capito tre cose. La prima è che occorre vedere e capire il mondo in cui viviamo, discuterne apertamente e proporre i cambiamenti opportuni senza farsi detestare, superando l’irritazione che il discorso riformista produce col suo tono di superiorità. Ciò è tanto più necessario perché nessuno in verità sa bene cosa sia meglio fare in campi difficili ma fondamentali, e questo perché nessuno può dire di aver compreso a fondo le grandi linee e le tendenze di questo mondo, per esempio in materia di denatalità, morte, immigrazione, energia, istruzione, declino e sviluppo possibile, clima, nuovi schieramenti internazionali, futuro europeo, ecc.
La seconda è che sulla base di questa analisi andrà costruito un discorso che non prometta e che non usi parole che suonino come promesse destinate a essere subito tradite, come appunto riforme e riformismo che andrebbero per questo abbandonate. Piuttosto occorre imparare a parlare della realtà nuova che ci circonda riconoscendo le verità di tutti, anche di quelli più lontani da noi perché anche loro hanno verità che vanno comprese e affrontate.
La terza è che bisognerà poi trovare il modo di mettere queste diverse verità a sistema e in scala, trovando soluzioni generali ma sempre ispirate al realismo e mai al moralismo o al senso di superiorità che proviene dal credere di sapere cosa occorra fare.
E’ un viaggio forse lungo, ma vale la pena di farlo, anche perché farà capire e imparare molte cose. Come al solito in politica, la sua durata dipenderà dalla qualità dei leader che lo guideranno, e la qualità delle condizioni in cui lo si farà dipenderà dalla capacità di affrontare anni difficili con ragionevolezza e elasticità, anche nelle alleanze politiche che si possono stringere e in quello che si può comunque provare a fare durante il suo corso.