L’anima anarchica dell’artista che manda ai matti i puristi della fotografia. Passioni e avventure, dalla militanza giovanile alla musica. E l’ossessione per il flash. La mostra a Genova
“Per favore, cita Sergio Fregoso. Ci tengo”. E’ l’unica richiesta di Jacopo Benassi, che non perde l’occasione di ogni intervista per citare il fotografo spezzino che considera il proprio mentore. “Più che a fotografare – spiega – mi ha insegnato a guardare”. Racconta di una Spezia degli anni Ottanta, quando frequentava il centro sociale Kronstadt ed è stato proprio Fregoso a introdurlo al mondo fotoamatoriale, ma con una prospettiva “molto più intellettuale. Fu lui a farmi scoprire Ando Gilardi…”.
Sul sito dell’Archivio Sergio Fregoso campeggia una scritta in caratteri neri su sfondo bianco, l’impatto visivo è quasi dimesso: “Io non voglio togliermi di dosso l’aria di casa, l’odore della mia città. Attimo su attimo, senza tregua, vorrei contenerla tutta sulla mia pellicola, che è la mia pelle, la mia superficie sensibile”. Guardando le fotografie di quest’uomo nato nel 1927 nel quartiere operaio Umberto I a La Spezia, tra i fondatori del Gruppo AV 70, che portò il linguaggio dell’immagine nelle scuole e nelle periferie della città, ci si trova di fronte a immagini piane, a colori, soprattutto di finestre. Niente di più lontano dalla poetica di Benassi. Eppure non c’è intervista in cui manchi quella preghiera: “Citalo, mi raccomando”.
Benassi Jacopo. Anche lui nasce a La Spezia, nel 1970. L’anno scorso la rivista online Artribune lo ha incoronato “Artista dell’anno” (nota: artista, non fotografo). Massimo Minini, cardinale decano dei galleristi italiani, se lo è portato a giugno nell’epicentro del sistema dell’arte contemporanea: Art Basel, la fiera più importante del mondo. Niente male per uno dal turbolento passato punk, anarchico e disobbedientissimo. (Confessa: “Oggi mi fa quasi ridere dire che faccio controcultura. Eppure, sotto sotto, nel sottosuolo, il mio spirito resta contro l’ignoranza e la banalità”).
Incontro Benassi in una sala al piano terra di Palazzo Ducale a Genova. Lì, nel mese di giugno, ha trasferito il suo studio e ha lavorato grazie a una residenza organizzata da Blu-Breeding and Learning Unit, resa possibile dai fondi ministeriali di Strategia Fotografia. In quei giorni ha realizzato il nucleo di opere che concludono il percorso della mostra “Jacopo Benassi. Libero!”, curata da Francesco Zanot, aperta a Palazzo Ducale fino al 14 settembre. Prima ci diamo appuntamento al bar. Pantaloni e t-shirt neri. Ciabatte di plastica con le strisce bianche orizzontali. Con lui c’è Khan, allampanato musicista berlinese, metà turco, metà findandese, che indossa una maglietta con la scritta “Beuys Beuys Beuys”. Doppio omaggio allo sciamanico artista tedesco e all’indimenticata hit della nostra Sabrina Salerno nazionale. La sera è in programma una delle performance musicali che, ormai da anni, caratterizzano la pratica di Benassi.
Incomincia a raccontare dall’inizio del suo percorso. Le occupazioni, la musica, la militanza politica. Disegna, dipinge, fotografa. Di mestiere fa il meccanico. L’amico Renzo “Benzo” Davetti, frontman del gruppo punk Fall Out, un giorno gli confida: “Puoi fare arte anche se sei un operaio”. Nel 1989, il Kronstadt organizza una mostra del collettivo “Arterie barbare”. C’è anche lui: “Eravamo degli scappati di casa”. Per l’occasione espone un quadro di un metro e mezzo per due, in cui compare la deposizione caravaggesca di un Cristo trafitto da grossi forchettoni, “una cosa volutamente blasfema. Anche se poi se lo prese mia madre, cattolicissima, che lo appese in camera da letto”.
Il primo punto di svolta, o una delle tante ripartenze dell’artista, avviene nel 1996. E’ l’anno del coming out, quando si dichiara pubblicamente omosessuale e trova la sua “luce normale”, che è quella del flash, che diventa il suo marchio di fabbrica. “Forse è stato casuale, ma è accaduto nelle stesse settimane ed è stata la fine di un incubo represso. Un giorno vado a casa di un amico e mi accorgo di questa luce e capisco che è la mia. Da allora non sono più riuscito a guardare le mie immagini senza flash. Che poi è una grande rinuncia alla fotografia, perché è la rinuncia alle belle immagini. Non puoi più fotografare il cielo, non puoi riprendere situazioni con troppa gente se no chi è davanti viene bruciato e le ombre nette coprono chi c’è dietro. Il flash appiattisce tutto”. Con l’avvento del digitale, poi, per una questione squisitamente di gusto cromatico, le immagini di Benassi diventano stabilmente in bianco e nero. “Con il colore non riuscivo a ottenere quel senso di appiattimento che cercavo”.
Le sue immagini sghembe e crude, fatte soprattutto di corpi, nel 2002 lo portano a Milano, dove realizza numerosi lavori editoriali. Pubblica su GQ e Rolling Stone. Ma dopo quattro anni si accorge che qualcosa non va: “Le mie fotografie stavano diventando ‘belle’. Cercavo l’inquadratura giusta. Usavo l’obiettivo costoso. Stavo smettendo di usare il flash. Certe mie immagini cominciavano a somigliare a quelle di Gabriele Basilico. Mi stavo perdendo. Un giorno mi dicono di andare a far vedere il mio lavoro a quelli di Vogue. Ma io da quelli di Vogue non ci sono mai andato. Sono tornato a Spezia e ho aperto un locale con un gruppo di amici”.
Il Btomic è un club dall’anima punk. Sperimentale. Si suona, si beve, si stampano magliette e fanzine. Pareti scrostate, atmosfera bohemien. E’ lì che Benassi sale sul palco per la prima volta. E lo fa suonando, ma è la macchina fotografica che detta la drammaturgia. La performance nasce per essere fotografata, eppure resta un evento di per sé. L’artista schiaffeggia il pubblico con il flash, e chiede alla gente di fare altrettanto. “Non sono un attore, né un musicista, né un ballerino. Ho iniziato perché sentivo di doverlo fare. Non c’è una drammaturgia, è quasi tutto improvvisazione. Penso un po’ al Fluxus, alla rottura dello spartito di cui parla Giuseppe Chiari. E’ solo dopo che decido se e come usare le immagini che realizzo in quei momenti”.
Ma è dopo il 2020 che la pratica di Benassi prende una piega irreversibile che lo porta dove è adesso. “Allo spazio Leica di Milano, per la prima volta, ho tagliato i vetri. Sono uscito fuori dalla fotografia, cioè quel tempio della fotografia amatoriale mi ha dato la possibilità di entrare dentro un mondo contemporaneo. E’ come un gesto quasi pittorico, quasi tributo a Fontana, per guardare dentro l’immagine che esce”. Da lì è tutto un crescendo: Museo Pecci di Prato, Fondazione Carispezia, GAM di Torino, Galleria Minini a Milano e Mai36 Galerie a Zurigo. Benassi espande il suo linguaggio: scrive sui muri, brucia cornici, assembla fotografie con cinghie industriali, raccoglie oggetti, realizza sculture. Un’estetica che, a tratti, ricorda quella del “fai da te” dello svizzero Thomas Hirschhorn, che realizzava sculture con lo scotch da pacco marrone. “Ho capito che sono una persona imperfetta, perciò lavoro sull’imperfezione. Sia fotograficamente, sia con i pennelli, con tutto, anche nelle performance lascio andare quello che sono veramente. Non sto a perfezionarmi, perché non ne sarei capace. Mi sono perfezionato e adesso sono numero uno a sbagliare”.
E’ in questo periodo che muore sua madre. Benassi deve sgomberare la casa dei genitori e, dovendo fare gli scatoloni, rivede la sua infanzia. I momenti belli e quelli brutti. Ritrova le pagelle di lui bambino: “C’era scritto che ero intelligente ma mi distraevo facilmente. E lì ho capito chi sono. Perché sono così, ancora oggi. Perdo subito la concentrazione. E’ il tratto del mio carattere. La mia imperfezione”. Quando entra nella camera da letto dei genitori, ritrova il suo quadro giovanile, quello della deposizione. Lo stacca dalla parete e vede l’ombra lasciata dalla tela sul muro, come l’impronta della sindone. La fotografa. L’immagine di quel muro sporco viene assemblata andando a coprire quasi totalmente l’opera del “Cristo inforchettato”, in un accrochage di cui fa parte, più piccola, anche la foto del comodino accanto al quale dormiva il padre, sul quale restano i segni delle bruciature delle sigarette dimenticate accese prima di addormentarsi. Un’opera sacra, esposta quest’anno anche al Museo Diocesano di Milano come controcanto a una Deposizione di Tintoretto. Una meditazione sugli affetti, sull’intimità, il lutto, la memoria. Perché, come cantano i Baustelle: “Il tempo ci sfugge / Ma il segno del tempo rimane”.
“C’era scritto che ero intelligente ma mi distraevo facilmente. E lì ho capito chi sono. Perché sono così, ancora oggi. Perdo subito la concentrazione. E’ il tratto del mio carattere. La mia imperfezione”
La mostra di Genova è piena di fotografie di farfalle. Il ritratto di una mucca. Quello di un astice. Di una scimmia. Teschi. Ciabatte. Tantissime ciabatte. Nel pomeriggio che passo nel suo studio provvisorio di Palazzo Ducale, Benassi riceve un pacco che ne contiene un paio griffate Playstation. Reagisce come se avesse ricevuto un regalo preziosissimo. Gli domando che cosa significhino per lui: “Sono la mia ossessione. Ho capito di essere omosessuale quando le ho viste da bambino e per anni non le ho usate — facevo persino la doccia coi calzini — per la paura di essere smascherato. Erano qualcosa di talmente intimo, legato alla nudità, che mi terrorizzava mostrare. Ora le ho metabolizzate, e le integro nei miei lavori come i miei più intimi ritratti, trasformando quella paura in arte”.
La mostra si sviluppa per accumuli di fotografie incorniciate, nei quali i soggetti dialogano per forma o contenuto, in quelle che viene voglia di chiamare “rime visive”. Ma ciò che nel percorso di Genova colpisce è lo spazio che si prende la pittura, a cui Benassi è tornato. “Ho iniziato a dipingere come un fotoreporter, in modo veloce e imperfetto, perché non ho la pazienza dello studio approfondito. E’ un atto che mi ha permesso di uscire dalla fotografia tradizionale. Dipingo per godere profondamente, creando lavori sulla mia città dove la figura umana non esiste più, per dare un’altra possibilità all’essere umano lasciando che la natura si riappropri degli spazi”. La maggior parte delle opere sono esposte appoggiate per terra, come se il visitatore arrivasse il giorno prima dell’inaugurazione. Quasi un invito a partecipare della condizione di provvisorietà che permea tutto il lavoro di Benassi.
Un altro tema ricorrente è quello delle spine di rosa. Ne vediamo di fotografate, ma anche in forma di sculture che convivono con le immagini. Spiega Benassi: “Oggi le spine sono la mia difesa, un muro che erigo, una vera e propria barricata politica che mi protegge, pur costringendomi a stare attento per non farmi male io stesso. Nel mio lavoro, simboleggiano le rose che non si manifestano, i fiori che vanno in sciopero per i pacifisti e contro le guerre, un riflesso del mondo che brucia. Sono il ritratto profondo di chi sono oggi, un mix di durezza e allegria”.
“Oggi le spine sono la mia difesa, un muro che erigo, una vera e propria barricata politica che mi protegge, pur costringendomi a stare attento per non farmi male io stesso”
Ed è forse questa la chiave con cui occorre leggere l’intera opera di Benassi: l’accostamento degli opposti. Dove severità/umorismo è solo una delle declinazioni di questa ambivalenza. A ben vedere, dietro il rumore visivo dodecafonico (le cornici fatte male, lo scotch, le pennellate casuali, i cumuli di argilla), abita un forte gusto classico e rigoroso. Un approccio tipico del punk: nell’Inghilterra della fine degli anni Settanta, i Sex Pistols non erano che l’altra faccia della medaglia della Regina Elisabetta. Esteticamente, Sid Vicious e compagni non sarebbero esistiti se non ci fosse stata l’impeccabilità della casa reale. E, probabilmente, valeva anche il contrario.
Il percorso della mostra di Benassi si conclude con un budello-labirinto arredato da sculture, a volte oscenamente autoironiche, e oggetti e scritte che danno conto del lavoro asistematico e caotico della residenza genovese. Fuoriusciti dal tunnel ci troviamo nei bagni del museo, dove Benassi espone le opere realizzate per Villa Croce, lo sfortunato museo d’arte contemporanea della città. Sono fotografie dei quadri dipinti dall’artista e che raffigurano fiori recisi, foglie malmesse, cieli visti nel giardino della villa. “Trovo ironico e liberatorio dipingere cieli e poi fotografarli col flash, spingendo a riflettere su cosa c’è dietro un’immagine. Oggi mi sento libero da qualsiasi schema la fotografia impone, e questa pittura è una continua evoluzione del mio linguaggio”.
Benassi è il classico caso che manda ai matti i puristi della fotografia. E’ l’eterno derby che si gioca dagli inizi del Novecento, quello tra pittorialisti e modernisti, nel quale i primi strizzano l’occhio alle arti figurative, quasi la fotografia non fosse abbastanza arte in sé, e i secondi che rivendicano la capacità del medium di essere arte dentro la propria specificità, autocondannandosi, però, all’isolamento e alla marginalità. Benassi ha scelto di schierarsi con i primi. Ma, come le persone di senno, sa che gli schemi uccidono l’intelligenza. E fuori da Palazzo Ducale ha scritto, con lo spray rosso, una frase di deliziosa ambiguità: “Benassi contro la condanna della fotografia”.