Nessuno come lui ha saputo esprimere l’italiano medio e quindi provinciale, l’italiano maschilista e beghino cattolico, quasi più tipico al nord che al sud, con la sua ossessione per un’efficienza tutta immaginata e tutti gli altarini ben occultati, dai debiti alla moglie ereditiera. L’amicizia con Fellini e l’esposizione curata da Marco Dionisi Carducci
Roma e Rimini, Sordi e Fellini, come se l’una fosse la declinazione dell’altra e dell’altro, Roma e quindi Rimini, Sordi e così Fellini. Nessuno meglio di Federico Fellini ha saputo raccontare Roma nei suoi aspetti più intimi, nei suoi vizi più eclatanti così come nessuno come Alberto Sordi, romanissimo, ha invece saputo esprimere l’italiano medio e quindi provinciale, l’italiano maschilista e beghino cattolico, quasi più tipico al nord che al sud, con la sua ossessione per un’efficienza tutta immaginata e tutti gli altarini ben occultati, dai debiti alla moglie ereditiera. Così se Fellini è Roma, il suo film capolavoro che contiene da 8 1/2 ad Amarcord ecco che Alberto Sordi è Il vedovo, l’Alberto Nardi che oggi sotto nomi e sembianze diverse vive su tutte le cronache giudiziarie della Milano che sale: “Mi sai dire cara che cos’è un megalomane? chiede Alberto. “Un megalomane è uno che si crede superiore a tutti, invece è un cretino ridicolo, che si circonda di incapaci”, risponde Elvira, Franca Valeri. E forse qualcuno tra Palazzo Marino e Porta Nuova avrebbe dovuto riguardarselo quel film.
Un’amicizia quella tra Sordi e Fellini nata quando entrambi erano ancora solo ambizione e desiderio, follia e tanta fame. Un’amicizia poi tenuta stretta negli anni, in un mondo in cui è difficile anche solo ricordarsi di farsi una telefonata. Furono, loro infedeli per costituzione, fedelissimi l’uno all’altro, ed è una bella occasione ritrovarli nella mostra accolta negli spazi del Grand Hotel di Rimini: “Alberto Sordi, maschera di un Vitellone”. Un’esposizione che prima di tutto recupera una relazione non così evidente e nota come dovrebbe. Un’amicizia che visse all’inizio sopratutto nell’intuito di Fellini nel rivelare la maschera di Alberto Sordi, prima ne “Lo sceicco bianco” e poi ne “I Vitelloni”. La mostra offre un repertorio fotografico e alcuni dei costumi di scena fino a “Il marchese del Grillo”, ma il centro restano quei primi due film, due pellicole fallimentari allora per pubblico e per giudizio critico e oggi considerate giustamente due capolavori.
Il Grand Hotel di Rimini offre la giusta malinconia con una cornice sfarzosamente délabré, nonostante l’estate in corso tutto sembra già preannunciare un precoce settembre. Il faccione di Alberto Sordi è truccassimo fino all’osceno nella festa di carnevale ne “I Vitelloni”, ma questa volta sembra intravvedere la stupidità non tanto dentro di sé, ma attorno. Quella inadeguatezza tonta che un tempo alleggeriva oggi invece sembra inesorabilmente appesantire. Le maschere non sembrano più sovrapporsi, ma aderiscono sui volti di chi non ha più alcuna intenzione di fingere. La mostra aperta fino al 28 agosto, curata da Marco Dionisi Carducci, con la supervisione della storica collaboratrice di Alberto Sordi Paola Comin, offre così una pausa, un po’ da ballo sul Titanic sul mondo di oggi, favorendo nel contempo un esercizio di disincanto rispetto all’eccesso di dolore che ci attanaglia. Uno scorcio di estate, per quanto malinconico, da cogliere e afferrare tra vestiti démodé e balli in maschera.