Gaza e Cisgiordania. Una pressione di indicibile violenza per la pacificazione attraverso la forza, con tutti i costi politici e morali nel conto. Riscrivere la mappa del medio oriente cambiato dal 7 ottobre
Con il nuovo progetto di colonizzazione a est di Gerusalemme e l’assedio di Gaza City, sfide frontali ad Hamas e alla diplomazia internazionale di marca Onu e Ue, il governo israeliano di destra nazionalista rende chiaro, anche contro il parere dello stato maggiore dell’esercito e contro una consistente minoranza militante del paese, che per non essere annientati l’unica soluzione è il dominio e la pacificazione attraverso la forza, con tutti i costi politici morali e umanitari messi nel conto. Da questa pressione di indicibile violenza i leader del paese sperano di ricavare la liberazione degli ostaggi e la resa di Hamas. Al di là di questo, e lo hanno esplicitamente professato, vogliono riscrivere la mappa del medio oriente a favore della sicurezza intangibile del paese che ha subito il pogrom del 7 ottobre 2023, all’insegna del “mai più”. Per questo obiettivo hanno combattuto e stanno combattendo da quasi due anni, la guerra più lunga e sanguinosa per loro e per i loro nemici, sconvolgendo la rete delle loro relazioni nel mondo, esponendosi alla riprovazione dei tribunali internazionali, dell’Onu, di molti governi europei che si dicono pronti, insieme ad altri paesi extraeuropei, al riconoscimento dello stato palestinese che Israele non intende permettere. Il grande Rabin, assassinato da un fanatico come alcuni di quelli che sono al governo, diceva che la pace si fa con i nemici.
Ma i nemici hanno rifiutato la via della pace per decenni e hanno infine osato una replica atroce della Shoah nella terra del sionismo, cioè del focolare nazionale che deve proteggere vite ebraiche a ogni costo, mettendolo al centro di un assedio su sette fronti contemporanei, compreso quello già prenucleare di Teheran, e offrendo in sacrificio i civili di Gaza per il bene della causa militante degli aguzzini del 7 ottobre. In queste condizioni, sebbene il cuore di parte dell’opinione pubblica israeliana e della diaspora batta con umanità e sensibilità per la fine della guerra, sebbene l’isolamento internazionale di Israele sia ogni giorno più pronunciato, fino a ridurlo allo stato di paria tra le nazioni e a fomentare un ritorno mondiale dell’antisemitismo antisionista, mai spento davvero, al dominio attraverso la forza, allo sradicamento di popolo e stato palestinesi a Gaza in Cisgiordania e ovunque non sembrano esserci alternative.
La via è tragica, per chi la percorre e per chi la subisce. Ridurla a un espediente per restare in sella, da parte di Netanyahu, vuol dire non aver capito niente del trauma del 7 ottobre, della trasformazione radicale di Israele negli anni, della scomparsa di una sinistra democratica capace di coagulare una maggioranza efficace intorno a sé, e limitata a un’importante testimonianza di coscienza morale, e delle conseguenze di tutto ciò, che ricadono su Israele e in misura analoga o infinitamente maggiore su chi incontra il suo esercito sulla strada della difesa e della sicurezza nazionale, dai cieli del Libano a quelli di Teheran, dalle montagne dello Yemen al territorio di Gaza, fino alla Cisgiordania. Possiamo salvarci la coscienza disprezzando toni e argomenti della destra nazionalista e religiosa che condiziona il governo ed esercita una leadership ben oltre i propri confini politici, ma una coscienza salvata non risolve il problema di un odio interetnico sconfinato, alimentato dalla volontà di sterminio degli ebrei in quanto tali e da quel “mai più” affidato non alle parole e alle coscienze ma, purtroppo e inevitabilmente, alla pura forza, finché questa forza resisterà, e nonostante tutto c’è da sperare di essere morti e sepolti prima che si esaurisca.