Il sindaco Sala s’infuria con il Viminale che non lo ha avvertito dello sfratto che doveva avvenire a settembre. Ma anche quel giorno sarebbe mancata la soluzione, eppure la sinistra governa la città dal 2011
“Lo sgombero è agghiacciante. Inaudito che sia avvenuto senza avvertire il comune”. Deve passare tutta la mattina, ma alla fine Pierfrancesco Majorino, schleiniano sotto la Madonnina, e per questo aspirante futuro primo cittadino di Milano, rompe (quasi) il silenzio. “Non faccio interviste”, spiega. Il suo pensiero sullo sgombero del Leoncavallo lo affida a Meta. Per i suoi detrattori Majorino è “l’amico dei centri sociali”. E per una volta lui non li smentisce. Tra i pochi dem che commentano la notizia è l’unico a non cadere nel facile tic: “E allora Casa Pound?”. “Lo sgombero di quel postaccio – scrive – non legittimerebbe in alcun modo quello del Leoncavallo. Non c’è la par condicio degli sgomberi”.
Per il resto la reazione dei dem, su tutti quella del sindaco Beppe Sala, è indignazione che sposta il problema: il Viminale non ha avvertito il comune! Poche le parole invece in difesa di una realtà che a Milano ha compiuto 50 anni. Prevale l’imbarazzo. Non solo perché la vicenda infiamma una delle classiche antinomie della sinistra: come tutelare la legalità e allo stesso tempo essere dalla parte di chi, si pensa, fa del bene in condizioni illegali? Ma soprattutto perché per cercare di risolvere la situazione e evitare lo sgombero, Pd e compagni hanno avuto a disposizione tre giunte: quella di Pisapia e le due di Sala. Quattordici anni durante i quali la situazione dello storico centro sociale non è cambiata, restando quella di uno stabile illegalmente occupato dal ‘94, quando fu sgomberata la prima sede nell’omonima via Leoncavallo. Passato poco, i militanti del Leonka occuparono un altro edificio: l’ex cartiera di via Watteau, di proprietà dei Cabassi, nota famiglia di costruttori, lo stesso immobile liberato ieri.
E d’altronde anche per ammissione del sindaco lo sgombero era solo questione di tempo: dopo la sentenza della Corte di Appello di fine 2024 che ha condannato il Viminale a risarcire con tre milioni di euro i proprietari, lo sfratto era previsto per il 9 settembre. Insomma, avranno forse ragione Sala e l’ex viceministro dell’Interno dem Mauro Mauri che ieri diceva che quella del governo “è solo un’operazione di propaganda” perché lo sgombero sarebbe avvenuto lo stesso tra venti giorni. Ma è anche vero che difficilmente per allora sarebbe stata pronta la soluzione alternativa proposta dal comune: il bando per assegnare un nuovo spazio non è stato ancora pubblicato. Ma questa è solo l’ultima delle tante soluzioni cercate per legalizzare il Leoncavallo, un centro sociale che nel 2007 piacque persino a Vittorio Sgarbi, allora assessore alla Cultura, che paragonò i graffiti del Leonka alla Cappella Sistina. In tanti d’altronde ieri ricordavano che in un lontano giorno del 1994, un 21 enne consigliere comunale della Lega, tal Matteo Salvini, parlava del centro sociale come di un luogo in “confrontarsi, bere una birra e divertirsi”. Molto lontano insomma dal mileiano “Afuera” con il quale ieri il vicepremier ha festeggiato lo sgombero. Perché una cosa è certa: la storia del Leoncavallo intreccia cinque decenni di Milano, sin dalla morte, nel 1978 di Fausto e Iaio, uccisi proprio mentre si recavano al centro sociale. Ha alimentato passioni e scontri, ma anche impensabili riconciliazioni. E infatti il primo a cercare una soluzione, alla fine degli anni 90, fu Sergio Scalpelli, allora assessore della giunta di centrodestra di Albertini. “L’idea era di avviare un processo di regolarizzazione attraverso lo strumento di una fondazione per realizzare uno spazio destinato all’arte e alla creatività”, ricorda. Quel progetto naufragò a causa dei timori di istituzionalizzazione dei militanti e della diffidenza dei Cabassi, “adesso però sarà proprio quella fondazione a partecipare al bando del comune”, spiega al Foglio Mirko Mazzali, avvocato dell’associazione Mamme del Leoncavallo.
La soluzione fu davvero a portata di mano tempo più tardi, nel 2010, a pochi mesi da fine della giunta di Pisapia. L’allora assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris, aveva trovato un accordo con la famiglia Cabassi per acquisire lo stabile e metterlo poi a bando. L’intesa prevedeva che i Cabassi avrebbero ricevuto in cambio un altro immobile in via Zama. Il consiglio comunale però non approvò mai la delibera che avrebbe reso efficace quell’accordo. Come mai? A frapporsi fu l’allora presidente del consiglio comunale, Basilio Rizzo, un vecchio comunista eletto con la lista di Rifondazione che chiamava l’operazione “delibera Cabassi” perché, sosteneva, l’immobile dato in cambio aveva un valore superiore. Ricorda l’avvocato Mazzali, che all’epoca era il capogruppo di Sel a Palazzo Marino: “Rizzo non mise mai la delibera all’ordine del giorno e la consiliatura finì. Quando arrivò Sala – racconta ancora Mazzali – i Cabassi erano infuriati e ormai indisponibili a qualunque accordo”. Risultato? Per un po’ non se ne fece nulla. Fino alla sentenza della Corte d’Appello che ha di fatto avviato le procedure per lo sgombero. E ora Sala, tornato di corsa dalle ferie, col bando deve correre.