Quanto capisce Israele di Hamas. Le ultime fasi della guerra

L’offensiva a Gaza City e i negoziati per un accordo globale e liberare gli ostaggi. La strategia di Netanyahu e la paura delle famiglie dei rapiti

L’attacco a Gaza City è iniziato. Tsahal procede dalla periferia, l’obiettivo è entrare nella città-roccaforte, nelle zone in cui Hamas ha il potere e il controllo, che sono anche quelle in cui la popolazione è concentrata. L’esercito israeliano ha obbedito al governo e il ramatkal, il capo dello stato maggiore, Eyal Zamir, ha iniziato le prime manovre del piano che porterà i soldati israeliani nelle zone in cui Israele aveva scelto di tenersi fuori per evitare le azioni di guerriglia e per non mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Di alcuni dei cinquanta rapiti che rimangono ancora nelle mani di Hamas, Israele conosce le posizioni. Tsahal non può andare a recuperarli, altrimenti, come già accaduto lo scorso anno, i terroristi li ucciderebbero pur di non permettere ai soldati di liberarli. Il compito dei militari è fare pressione sul gruppo della Striscia. Circondarlo, farlo sentire senza altra alternativa se non accettare un accordo alle condizioni di Israele. La diplomazia si muove con l’esercito, mentre i soldati avanzano preceduti dai bombardamenti, i centri dei negoziati cercano di mettere in fila le condizioni per un accordo.

Il ministro per gli Affari strategici, Ron Dermer, ha incontrato a Parigi i funzionari del Qatar due giorni dopo che Hamas ha accettato un accordo parziale per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco. Il gruppo della Striscia ha dato il via libera a una proposta per dieci ostaggi vivi e diciotto morti da lasciar uscire da Gaza in sessanta giorni in cambio del ritiro dell’esercito israeliano e della scarcerazione di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Israele non accetta più un piano parziale, le sue condizioni, dopo tutti i rifiuti di Hamas, sono: la liberazione immediata di tutti gli ostaggi e la sconfitta del gruppo terrorista. La sconfitta dentro alla Striscia di Gaza è un concetto difficile da definire. Hamas non è più il gruppo in grado di organizzare il 7 ottobre, ma è ancora un’organizzazione capace di compiere agguati contro i soldati israeliani e di imporre il suo controllo sulla popolazione della Striscia, stremata e costretta a spostarsi da un campo all’altro a causa dei combattimenti. Gaza City è una delle città più affollate e l’esercito ha iniziato a chiedere a organizzazioni umanitarie e funzionari sanitari di spostarsi. Tende e rifugi verranno trasferiti nelle parte meridionale di Gaza, ancora non è stato comunicato un piano chiaro per un’evacuazione su vasta scala.



Le famiglie degli ostaggi protestano quotidianamente, scendono in strada scortate da schiere di israeliani per i quali ormai dalle foto dei rapiti escono tratti familiari. Sono i volti di sorelle, mariti, fratelli di tutti. I manifestanti accusano il governo di aver “condannato a morte gli ostaggi” con la decisione di entrare a Gaza City. Finora il governo israeliano e il suo esercito hanno dimostrato di non comprendere Hamas, non hanno previsto il 7 ottobre e non hanno intuito la sua totale disposizione ad andare avanti a scapito della popolazione palestinese, ma l’intenzione di Netanyahu è quella di usare l’ultima offensiva militare come un coltello puntato sul gruppo per spingerlo ad arrendersi. Il primo ministro ha dato il mandato di negoziare per il rilascio di tutti i rapiti, fermerà l’assalto pianificato se questo accordo verrà concluso. Nei suoi piani, l’azione militare e le trattative vanno insieme. Gli israeliani che scendono in strada per protestare non si fidano. Negli ambienti degli analisti che hanno riconosciuto il fallimento della strategia israeliana a Gaza prima del 7 ottobre, che hanno denunciato l’insuccesso della koncepcja, la concezione secondo la quale in cambio di sostegno economico Hamas non avrebbe più rappresentato un problema per Israele, circola un sospetto: ancora oggi non c’è abbastanza capacità di previsione del modo in cui Hamas reagirà, il gruppo continua a essere poco compreso, imprevedibile, sottostimato. Una prova di questa mancanza di comprensione c’è già: Israele ha parlato a lungo dell’ultima offensiva militare, come aveva fatto quando Tsahal lo scorso anno si preparava a entrare a Rafah. Il creare dibattito attorno ai piani militari prima che prendano forma, secondo Israele, dovrebbe portare Hamas ad accettare un accordo. Invece smuove soltanto la pressione internazionale.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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