Ve lo meritate Pippo Baudo!

Perché il lutto generale per il presentatore nasconde soprattutto un grande effetto nostalgia. L’Italia e il mondo che era contro quello che siamo diventati oggi

Se leggo ancora un pezzo su Pippo Baudo, se leggo soprattutto ancora un pezzo in cui Pippo Baudo “era la Dc” metto mano al parrucchino. Eppure Pippo Baudo era la Dc, certo, ma intanto mettiamoci d’accordo: quando è diventato cool essere democristiani? E nelle lodi sperticate di questi giorni, tra il “popolo di Pippo”, e lo “streaming da Militello”, detti e scritti senza ironia, cosa mai coverà sotto l’unanime lutto (in un popolo per il resto litigiosissimo e che non va mai d’accordo su niente)?

Certo c’è l’effetto nostalgia, basta fare qualunque cosa e lasciarla lì cinquant’anni e poi la rimpiangeremo, è chiaro, è automatico, del resto abbiamo amato perfino la serie tv sugli 883 (gli 883! Se ce l’avessero detto allora!). Dunque benissimo le celebrazioni del baudismo come rito nostalgico unificante. Ma sarà così in eterno? Tra cento, mille anni avremo funerali coi carabinieri in alta uniforme pure, mettiamo, per Tony Effe e Fedez? O questo effetto a un certo punto si interrompe? E certo, il funerale-camera ardente estiva del vip cinetelevisivo funziona sempre, è un format soprattutto romano in cui la capitale e la Rai hanno un’expertise insuperata, manco Buckingham Palace con le sue esequie chiamate come i ponti londinesi, “London Bridge” ecc. (Gigi Proietti, Carlo Vanzina, Raffaella Carrà forse avranno avuto nomi in codice coi ponti romani, Flaminio, Garibaldi, Sisto…).

Certo c’è “l’unanime cordoglio”, com’è giusto che sia, nel momento del trapasso, ma oggi, rivedendoci bambini, chi di noi, all’invito genitoriale di “guardiamoci Fantastico!”; o “c’è Domenica In”, non avrebbe proferito una sonora pernacchia e preferito iniziare a farsi di eroina? Tutto rivalutato dopo, anche il Sanremo che all’epoca era veramente inconcepibile guardare, non ancora beneficato e risputato dai social come reliquia di modernariato. E poi certo, Baudo poteva essere pure la Dc, però la Dc parlandone da viva non è che fosse tutto questo sexy eccitamento, detto sempre con l’occhio di allora: corrotta, ligia, bigottona, unificante e modellante come una pancera, come la televisione del Nostro. Kitsch come il mollettone sul tavolo sempre pronto ad attutire gli spigoli del reale, con la valletta bionda e la valletta mora (“groundbreaking!” avrebbe detto una Anna Wintour di un immaginario “Diavolo veste Pippo”), col populismo in doppiopetto (“i politici stiano fuori da Sanremo”, detto da uno che un giorno sì e l’altro pure stava con De Mita e Andreotti).

E lo smoking come vestito della festa, quasi preso da uno spot Aiazzone, “il sabato sarete nostri graditi ospiti”), la laurea in Giurisprudenza come lasciapassare e status symbol estremo di un paese di “Dott.” e magari “Dott. Avv.” (oggi travolto dalle università online e da ChatGPT che devasterà le decine di migliaia di giuristi “in utroque” come avrebbe detto il Gadda). Ma niente: tacciono oggi i nemici, tace il Bruno Vespa del celebre siparietto acido per problemi di sforamento orario (“vi passiamo la linea, abbiamo finito”; “grazie a Dio”), “ma chi è Bruno Vespa, il padrone della Rai?”, risposta di Baudo; con lo sputazzismo che non si addice molto al “gran signore” “colto” del peana a reti unificate di questi giorni: le sputazzate a Claudio Donat-Cattin autore di “Porta a Porta”, tra l’altro cognome Dc in purezza; ma raccontano al Foglio che ci fu pure un altro sputazzamento, al maestro Pippo Caruso; vabbè. Tace l’Antonio Ricci che ha costruito negli anni una tv simmetrica al baudismo; già all’epoca dei massimi trionfi osava sketch feroci, Gianfranco D’Angelo al “Drive In” nel 1987 faceva una strepitosa soap “Anche i Baudi piangono”, tra pupi siciliani, con tormentoni celebri – “questo l’ho inventato io”; “questo non me lo dovevi fare, hai toppato”, che sui social scorrono in questi giorni in una contronarrazione clandestina al lutto mainstream (ormai siamo ridotti alla clandestinità a Baudo). E infine “lo bbbacio” di ogni oggetto appartenente a Katia, che scudisciava con la frusta una scuderia di parrucchini animati (D’Angelo faceva sia Baudo che la Ricciarelli).

Poi i vari “Striscia” (compreso un “Lama d’oro”, alternativa sputazzante al Tapiro) su disavventure fiscali e giuridiche del Nostro (che patteggiò per una vecchia storia di telepromozioni. E l’intervista al manager di Baudo Armando Gentile, deluso e rivoltato, che disse d’essersi preso colpe non sue e in tutta risposta fu defenestrato). Ma chi se ne frega, qui siamo garantisti, anche ex post, e proprio ex post va letta la vicenda umana e televisiva del baudismo: sì, era la Dc, ma è soprattutto il passato, e dunque è grande, per definizione. A chi oggi ha almeno 40 anni (gli altri non sanno probabilmente chi era, conoscono Katia Ricciarelli per le apparizioni sgangherate a qualche reality) ricorda ciò che era, che naturalmente è meglio di ciò che è oggi.

Ed era un’Italia che faceva naturalmente schifo, però con una qualità percepita alta, altissima, dopo. Di sicuro si andava al mare non ancora proibitivo, in auto dignitose magari di una Fiat italiana e con un capo ancora scicchettone, con l’orologio sul polsino (ma chissà che magheggi facevano papà e mamma con le cambiali senza dircelo, il ricordo distorce come piace a noi). La tv pubblica e poi privata aveva però un sacco di soldi, questo sì, e c’erano perfino idee e non format premasticati. C’era poi un sistema, un pantheon di divinità fisse in cui credere, obbedire o al limite combattere; la Dc, appunto, coi politici democristiani a forma di politici democristiani, il Pci a forma di Pci, i fasci nascosti chissà dove, non c’erano il gender e i social che mandano in confusione le brave genti, però certo i riferimenti erano più sicuri, il presidente degli Stati Uniti era un affidabile capo del mondo libero, e non un signore minaccioso da cui si va con l’animo dei ministri di Baviera che salivano a trovare il loro re Ludwig pazzo al castello (e Ludwig non mostrava la collezione di cappellini con le frasi stampate). Ma soprattutto eravamo giovani, cazzo. Giovani che per nessun motivo al mondo sarebbero stati in casa a vedere il Sanremo di Pippo Baudo. Non permetteremo a nessuno di dire che il baudismo è stato la più bella età della nostra vita.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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