Più dei dazi, temere l’immobilismo della politica industriale

Bene l’export, che in parte ci salva, ma bisogna correggere gli errori recenti e riprendere a investire. Le imprese esportatrici sono state in grado di affermarsi in un ambiente internazionale aggressivo. Restano aspetti di debolezza di lungo periodo

C’è un quesito senza risposta, in questi mesi di surplace della politica economica italiana. Perché cadere vittime dell’ipnosi generata da Trump? Stime drammatiche sulle possibili conseguenze per export e occupati rimbalzano invano sulla realtà dei fatti: abbiamo fatto trascorrere invano i primi otto mesi del 2025, e come al solito ora è tutto appeso alla prossima legge di Bilancio. Con il Mef che fa instancabilmente capire che di risorse non ce ne sono. Le imprese ci hanno provato, a richiamare il governo alla necessità di un rapido cambio di rotta. Ci ha provato Confindustria, con la sua richiesta di un immediato piano straordinario industriale in Europa, correggendo gli errori del Green deal, Fit for 55 e iper regolazione su ogni settore della produzione. E di un piano industriale straordinario altrettanto urgente anche in Italia, per restituire efficacia agli incentivi per gli investimenti industriali, correggere una Ires premiale a platea ridottissima e condizionalità errate (più occupazione invece che più investimenti), nonché enormi semplificazioni (sin qui il governo ne ha varate un numero minimo). Altrettanto ci hanno provato Confcommercio e tutte le maggiori associazioni dei servizi, visto che alla caduta della produzione e degli investimenti manifatturieri si aggiunge in Italia un andamento asfittico da anni della domanda interna e dei consumi: che chiedono entrambi energiche misure per il rafforzamento dei salari di produttività e grandi incentivi agli investimenti tecnologici nel settore dei servizi mercato. Ma il governo è rimasto inchiodato alle crisi del giorno (vedi la nebulosa del post Ilva, non c’è un solo numero nelle dichiarazioni di questi giorni e non si capisce dunque su che basi dovrebbero farsi avanti nuovi investitori industriali). L’eterno rinvio è un errore grave. La Germania del cancelliere Merz sta correndo, con i suoi maxipacchetti di misure per riprender e crescita e investimenti. Noi no.


Limitiamoci in questa riflessione alla sola manifattura e al suo export, visto che è quest’ultimo con la sua crescita ad aver fatto tornare in attivo la posizione finanziaria internazionale dell’Italia. È stata proprio l’enorme e per molti inaspettata trasformazione avvenuta nella base manifatturiera italiana sull’export, ad aver assicurato all’Italia successi insperati nel post Covid. Ergo lo tsunami trumpiano attuale chiede alle classi dirigenti italiane una profonda consapevolezza dei da farsi in fretta, se non vogliamo compromettere il buono che è avvenuto, malgrado penosi errori come l’abolizione di Patent Box e Ace, l’agonia imposta a industria 4.0, e l’autogol clamoroso su Industria 5.0.



Consiglio non richiesto. Politica e media farebbero bene a leggere con attenzione dati e analisi contenuti nell’ultimo numero della Rivista di Politica economica dedicata al Sistema Italia, pubblicata lo scorso primo luglio. E in particolare il capitolo dedicato all’export, scritto da Cristina Pensa e Matteo Pignatti, economisti presso il centro Studi di Confindustria, ai quali chi qui scrive è grato debitore.



Partiamo da una considerazione essenziale. L’export ci ha salvato da una crisi manifatturiera molto dura. Dal 2002 al 2023 la base produttiva italiana ha registrato un crollo di 210 mila unità manifatturiere, più del 38 per cento del totale, quasi completamente concentrato nelle imprese attive solo sul mercato domestico, la cui riduzione ha contato per il 90 per cento del totale, e soltanto marginalmente in quelle esportatrici. Meccanicamente, si è realizzata una maggiore esposizione internazionale delle imprese italiane: l’incidenza di quelle esportatrici su quelle attive è aumentata di 6 punti percentuali, fino al 23,1 per cento nel 2023. Le imprese internazionalizzate sono state in grado di affermarsi in un ambiente internazionale aggressivo, superando i più alti costi fissi e variabili che l’esportare comporta rispetto al vendere sul mercato interno. La loro crescita relativa ha dunque aumentato la quota delle imprese più efficienti tra tutti i produttori. Le imprese internazionalizzate costituiscono una porzione determinante per gli andamenti aggregati della produzione, del valore aggiunto e dell’efficienza. Se l’aumento del margine estensivo dell’export italiano è avvenuto grazie alla riduzione inferiore della numerosità delle imprese esportatrici rispetto al totale delle manifatturiere, è insieme però aumentato anche il margine intensivo cioè l’export medio delle imprese. Nel 2023 più di un terzo del fatturato dalle imprese manifatturiere italiane era destinato ai mercati internazionali, in aumento di quasi 9 punti percentuali rispetto al 2002.



Certo, restano aspetti di debolezza di lungo periodo. Come la composizione delle manifatturiere italiane per dimensione, che presenta ancora una maggiore concentrazione nelle classi micro-piccole, le quali hanno subito la massima contrazione. Ma l’Italia è l’unico paese in cui la riduzione della base manifatturiera ha comportato un aumento dell’incidenza delle imprese esportatrici. La quota di manifatturiere tedesche esportatrici sul totale delle attive resta al 31,9 per cento ma ha perso 4,7 punti percentuali dal 2008, contrariamente a quanto avvenuto in Italia. Tra le nostre medie imprese industriali la percentuale di esportatori ha superato il 93 percento. Nell’internazionalizzazione le manifatturiere italiane piccole e medie superano le omologhe di Germania, Francia e Spagna. La diffusione della propensione all’export nelle classi medio-piccole ha prodotto più diversificazione di prodotti, più possibilità di entrare a monte come fornitori nelle catene globali del valore, più elasticità nell’adattarsi al variare della domanda internazionale, minore esposizione ai colli di bottiglia delle supply chain. Per questo l’export italiano ha fatto meglio di quello tedesco e francese, con una crescita nell’ultimo decennio a prezzi costanti del 29,2 per cento, rispetto al +11,5 per cento della Germania e +9,9 della Francia.



Tutti questi dati attestano che il punto per l’Italia non è aspettare il bilancio dei diktat trumpiani. Ma correggere subito i propri errori di politica fiscale e industriale degli ultimi anni, nell’industria come nei servizi. O riprendiamo a investire e corriamo dietro a nuovi mercati, oppure a compromettere l’Italia saremo noi stressi, prima di Trump.

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