Per il ricercatore israeliano Micah Goodman, la vittoria di Israele non passa dal campo di battaglia ma dall’isolamento dell’Iran e dalla normalizzazione con l’Arabia Saudita. Sinwar voleva sabotarla. L’unica risposta è rafforzarla. “Sarà necessario un governo di unità nazionale”
Tel Aviv. Dopo non poche frizioni, ieri il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, ha approvato le linee generali dell’annunciato ingresso a Gaza City mentre, allo stesso tempo, Egitto e Qatar starebbero provando a portare avanti un piano negoziale alternativo – con il supporto della Turchia – da proporre a Hamas, con lo scopo di raggiungere un cessate il fuoco definitivo a Gaza, dopo 60 giorni di tregua. Il piano prevederebbe la liberazione di tutti i 50 ostaggi – di cui 20 ancora in vita – in cambio della scarcerazione di un numero non ancora precisato di prigionieri palestinesi. Quanto alla demilitarizzazione, Israele si dovrebbe impegnare a ritirare gradualmente le proprie truppe sotto una supervisione arabo-americana, fino al raggiungimento del disarmo totale di Hamas e la sua uscita definitiva dall’amministrazione della Striscia.
In attesa che questa proposta venga portata avanti, e supponendo che il gruppo terrorista sia disposto ad accettarla, emerge sempre di più il ruolo cruciale, sia dal punto di vista economico sia diplomatico, dell’Arabia Saudita. Non solo per quanto riguarda la ricostruzione sia infrastrutturale che politica dell’enclave ma, soprattutto, per il ruolo leader di Riad nel raggiungimento di una normalizzazione regionale.
Il Foglio ne ha discusso con Micah Goodman, ricercatore presso lo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme, autore di numerosi libri sul pensiero ebraico che hanno ricevuto prestigiosi premi internazionali. Goodman è anche considerato una delle voci più originali sui temi del pluralismo religioso e della convivenza: “La guerra a Gaza non sta giungendo al termine perché la politica di Hamas non è quella di proteggere i propri civili, ma di usarli per proteggersi. D’altro canto, il governo israeliano continua a focalizzarsi solo su cosa accade nella Striscia, quando si tratta di un conflitto molto più ampio, il cui epicentro si trova a Teheran. Da una parte dobbiamo continuare a proteggerci dal Regime che ancora controlla gran parte del medio oriente, inclusa Hamas. Dall’altra, e proprio per questo, veniamo costantemente condannati dall’occidente: una condanna che non possiamo permetterci sul piano diplomatico, per quanto – paradossalmente – sia impossibile agire su un piano, senza essere in contraddizione con l’altro”. E da ciò spiega anche la forte spaccatura all’interno del paese: “Mentre nella lotta contro Teheran gli israeliani sono compatti, su Gaza c’è una frattura. E se dovesse continuare la normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita questa, da un lato, garantirebbe la chiusura del cerchio con l’Iran ma, al tempo stesso – poiché implicherebbe inevitabilmente il riconoscimento di uno stato palestinese – determinerebbe anche una spaccatura all’interno dell’esecutivo. La destra ‘messianica’ non seguirà Netanyahu perché questo significherebbe compromettere territori irrinunciabili per l’identità giudaico-biblica. Per tanto, al fine di costruire un’architettura solida per un nascente stato palestinese, sarà necessario, prima di tutto, ricostruire l’architettura politica di Israele, se il premier sarà disposto a negoziare con chi ora si trova all’opposizione: la destra “pragmatica”, il centro, e quel che è rimasto della sinistra storica. Non vedo altra via d’uscita: l’unico modo per Israele e per Netanyahu per sopravvivere, è portare avanti quanto prima la normalizzazione del medio oriente: garantendo la fine del Regime iraniano che è la causa di tutti i nostri problemi, a partire da quello palestinese. Per far questo, sarà necessario un governo di unità nazionale, come è già accaduto in passato, di fronte ad altre grandi sfide storiche: tra Eschol e Begin, a seguito della Guerra di Sei Gironi e tra Peres e Sharon, dopo la Seconda Intifada.”
“In fin dei conti – conclude Goodman – Sinwar ha cominciato la guerra del 7 Ottobre proprio per compromettere gli Accordi di Abramo. Quindi, oggi, l’unica possibile vittoria per Israele, non sarà quella a Gaza – una battaglia che abbiamo già perso, per lo meno sul piano mediatico – ma quella di riuscire a portare avanti la normalizzazione regionale e, in questo modo, ottenere una vittoria duratura. La strada è ancora in salita, perché in medio oriente tutto, anche la diplomazia, procede a rilento. E una delle più grandi difficoltà che abbiamo, a livello comunicativo, con le cancellerie occidentali, è che sono abituate a pensare che le vittorie si ottengano in un giorno e che le soluzioni siano sempre di tipo ‘binario’. Purtroppo, in questa regione non funziona così. Per questo dobbiamo portare avanti la normalizzazione per sconfiggere Hamas, e non il contrario”.