Le intenzioni del presidente americano sono: imporre il prezzo più basso praticato dalle aziende altrove, obbligarle a vendere senza intermediari, o addirittura permettere loro di alzare i prezzi in Europa per compensare. Ma queste potrebbero provocare l’effetto opposto
Gli americani pagano i farmaci quattro o cinque volte più degli europei. Basta!”. Con queste parole, Donald Trump ha riaperto il fronte dello scontro con l’industria farmaceutica. Il tycoon ha inviato lettere minacciose a colossi come Pfizer, Sanofi, AbbVie e AstraZeneca, intimando un drastico taglio dei prezzi. Ha promesso che, se le aziende non collaboreranno, il governo userà “ogni mezzo a disposizione per proteggere le famiglie americane”. Un linguaggio da campagna elettorale più che da strategia sanitaria, che punta dritto al cuore dell’elettorato Maga, ma che solleva un problema reale: i prezzi dei farmaci negli Stati Uniti sono realmente molto più alti che in Europa. A certificare l’entità della questione è un rapporto pubblicato dal dipartimento della Salute statunitense, realizzato dal centro di ricerca Rand Corporation. I dati del 2022 parlano chiaro: negli Usa i farmaci di marca costano in media oltre quattro volte rispetto all’Europa. Anche considerando gli sconti segreti applicati dalle assicurazioni, i prezzi restano comunque tripli. Non è un caso che Trump abbia scelto di affondare proprio su questo tema: tocca un nervo scoperto per milioni di americani, specialmente quelli senza copertura sanitaria.
Il presidente dell’Aifa, Robert Nisticò, lo ha spiegato chiaramente: “I più alti prezzi dei medicinali negli Stati Uniti, denunciati dal presidente Trump, sono il risultato di un sistema interamente privatizzato che contribuisce ad aumentare tutte le voci di spesa sanitaria. Al contrario, il nostro Servizio sanitario nazionale, anche grazie al lavoro dell’Aifa, riesce a ottenere per i farmaci prezzi tra i più favorevoli tra i paesi Ocse. Non possiamo ignorare, però – prosegue – che anche in Italia la spesa farmaceutica è in costante crescita. E’ dunque necessario intervenire sulla governance, individuando strumenti che consentano di premiare esclusivamente l’innovazione autentica, quella capace di dimostrare con dati reali un beneficio terapeutico concreto per i cittadini”. E qui arriviamo al punto cruciale. Le intenzioni di Trump – imporre il prezzo più basso praticato dalle aziende altrove, obbligarle a vendere senza intermediari, o addirittura permettere loro di alzare i prezzi in Europa per compensare – sembrano più slogan elettorali che misure concrete. Imporre prezzi troppo bassi potrebbe avere l’effetto opposto: ritardi nei lanci, minore disponibilità, fuga dal mercato. Senza contare che i prezzi “più bassi” in Europa sono spesso frutto di accordi riservati e non pubblici. Confrontarli in modo diretto è, nella migliore delle ipotesi, una semplificazione.
Anche la proposta della Casa Bianca di vendere direttamente ai pazienti, bypassando assicurazioni e Pbm, rischia di peggiorare le cose: chi ha soldi accede, chi è più fragile resta indietro. Infine, l’idea di alzare i prezzi in Europa per riequilibrare quelli americani è, di fatto, una minaccia priva di fondamento. I governi europei non accetteranno mai una simile imposizione, e hanno strumenti per difendersi.
C’è però un’eccezione interessante: i farmaci generici. Negli Stati Uniti rappresentano quasi il 90 per cento delle prescrizioni e, grazie alla concorrenza, costano mediamente meno che in Europa. Ma qui c’è l’inganno: in termini di spesa complessiva, i generici pesano solo tra l’8 e il 13 per cento. Quindi, anche se usati di più, incidono poco sul totale. A fare la differenza restano i farmaci di marca, i più cari e protetti da brevetto. Alla base di tutto, ci sono due visioni opposte della sanità. Negli Stati Uniti domina il mercato, con prezzi liberi, ma con forti rischi di disuguaglianza. In Europa, invece, prevale un modello regolato, con l’obiettivo di garantire accesso universale e sostenibilità. Questo non vuol dire che il sistema europeo sia perfetto, ma almeno riesce a evitare il rischio concreto che i farmaci possano diventare un lusso insostenibile per alcune fasce della popolazione.
Trump ha scelto di cavalcare il malcontento invece di affrontare una ben più complessa ma efficace riforma strutturale del Sistema sanitario. Dare a Medicare e Medicaid la possibilità di negoziare i prezzi, aumentare la trasparenza sui rebate, rafforzare la concorrenza post brevetto e regolare il ruolo degli intermediari. Dare dunque seguito a quell’Inflation Reduction Act (Ira), approvato negli Stati Uniti nel 2022 da Joe Biden, che ha cominciato a produrre i suoi primi effetti tangibili sul prezzo dei farmaci. Uno degli interventi più significativi è la selezione dei primi 10 farmaci più costosi per i quali Medicare ha avviato il processo di negoziazione. Sebbene i nuovi prezzi negoziati entreranno in vigore dal gennaio 2026, le previsioni indicano una riduzione dei prezzi compresa tra il 38 e il 79 per cento rispetto ai valori precedenti. Secondo i Centers for Medicare & Medicaid Services (Cms), con i volumi di prescrizione attuali, il risparmio derivante da queste prime negoziazioni ammonterebbe a circa 6 miliardi di dollari. A questo si aggiunge l’attivazione, già dal 1° ottobre 2022, del sistema di penalità per gli aumenti di prezzo superiori all’inflazione, che ha costretto diverse aziende farmaceutiche a rimborsare Medicare per aumenti considerati ingiustificati. Per ora, le mosse di Trump sembrano pensate più per guadagnare titoli sui giornali che per cambiare davvero le regole del gioco. Forte nei toni, debole nei fatti. E, ancora una volta, il rischio è quello di mantenere lo status quo, magari rivendicando dal prossimo anno i risultati ottenuti grazie alle misure messe in campo dal suo predecessore.