Un computer di trent’anni fa meglio dell’AI sulla scacchiera

I prodigi della tecnica del Ventunesimo secolo, che hanno rimpiazzato gli esseri umani in molte attività, non li hanno ancora sostituiti negli scacchi. Le ragioni della scarsezza dei modelli di AI

Garry Kasparov abbassa lo sguardo, pone le mani sul capo, soffre. E’ il 1997, New York, e per la prima volta nella sua carriera ha perso un match. Non sono bastati i migliori grandi maestri di tutto il mondo, ci è voluto un computer: Deep Blue. In verità, forse in pochi lo sanno, Kasparov perse solo il match di rivincita, il primo incontro lo vinse l’anno prima a Philadelphia. Ma poco importa, a scacchi conta il risultato, e il risultato è stato storico.



I computer già da decenni giocavano a scacchi, ma hanno rappresentato piccoli divertimenti per principianti, esperimenti per tecnici informatici, e in pochi tra i grandi (uno di questi è l’ex campione del mondo Mikhail Botvinnik) se ne sono interessati. Poi, nel giro di pochi anni dall’inizio del nuovo millennio divengono inarrivabili, quasi impeccabili. Di fronte a tale epopea vittoriosa (i più curiosi approfondiscano l’ascesa di uno dei più recenti e innovativi software, Alpha Zero) potremmo essere oggi di fronte alla scrittura di una nuova pagina di questa storia, che porterebbe il nome “Kaggle Game Arena”, il torneo al quale hanno partecipato per la prima volta non appositi motori scacchistici, ma le principali intelligenze artificiali: Open AI, Grok, Gemini, DeepSeek…



Questi prodigi della tecnica del Ventunesimo secolo, che hanno già rimpiazzato gli umani in molti ambiti, non li hanno però sostituiti di fronte a una scacchiera. Ogni scacchista che può definirsi tale guardando le loro partite non può non provare profondo senso di imbarazzo, riso, o persino pietà, per queste “povere creature” che non solo non raggiungono il livello dei computer tradizionali, ma fanno persino fatica a giocare una partita per intero senza commettere mosse illegali. Neppure Hikaru Nakamura, attuale numero due al mondo che commenta in diretta le partite, riesce molte volte a dare un senso alle loro mosse (che altrettanto spesso senso non hanno).


Le ragioni tecniche di tale scarsezza non sono eccessivamente complesse, e sono da ricercare nella natura probabilistica dei modelli di AI, ma c’è anche chi obietta che potremmo trovarci di fronte a tecnologie ancora acerbe, che, proprio come i computer tradizionali, abbandoneranno in tempi brevi il loro gioco grottesco. Chissà. Quel che è certo è che un primato umano negli scacchi ancora rimane: non la bravura, ma la stupidità naturale, molto più interessante dell’intelligenza artificiale.

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