Marie Gluesenkamp Pérez, la nuova promessa dem

Eletta a sorpresa alla Camera, pro choice sull’aborto, severa sul controllo delle frontiere, ostile alla polarizzazione destra-sinistra. Incontro americano con MGP, l’anti Ocasio-Cortez

Ese il futuro dei democratici americani non somigliasse a Zohran Mamdani, il cinematico candidato sindaco di New York e neanche alla sua principale sponsor, Alexandria Ocasio-Cortez, eroina della sinistra woke, ma alla proprietaria di una officina di autoriparazioni che ha vinto e rivinto il suo collegio elettorale in terra trumpiana, strappandolo ai repubblicani con un messaggio tarato strettamente sui bisogni della sua gente, sui ponti sul fiume Columbia e i danni delle microplastiche? Origini messicane, figlia di un predicatore evangelico, studi fatti in casa e poi al Reed College della liberalissima Portland, anche lei una esperienza da barista come AOC, sposata, con un bambino e una casa costruita da lei e suo marito Dean sulle rive di un fiume, pro choice sull’aborto, ma pro armi, fieramente a sostegno dei diritti Lgbtqai+ e severa sul controllo delle frontiere, Marie Gluesenkamp Pérez è la democratica che non ti aspetti, quasi una anti AOC (anche se il termine anti nel suo lessico quasi non esiste).

L’unica volta che MGP, per restare agli acronimi, incontrò Kamala Harris, nell’infilata che portava alla campagna per la Casa Bianca, fu a un party elettorale natalizio. La congresswoman notò che le ghirlande degli addobbi erano di plastica e, visto che il suo collegio elettorale nello stato di Washington è famoso per gli alberi di Natale, glielo fece notare. La risposta della vicepresidente fu un paio di occhi al cielo (“non mi è sembrato che capisse cosa stavo cercando di dirle”, commentò poi basita Gluesenkamp Pérez al New York Times).

Il suo attaccamento militante alla sua gente e al suo territorio le ha consentito nel 2022, e poi di nuovo nel 2024, con una agenda middle class, fatta di costo della vita, “strade di merda” e confini sicuri, di strapazzare Joe Kent, il candidato trumpiano per antonomasia, calato tra i boschi con la propaganda Maga, cospirazionista, no vax – voleva incriminare Anthony Fauci per omicidio, per dire – e anti woke. E’ finita 52 a 48, sotto i riflettori dei media nazionali che avevano scelto il terzo distretto come il laboratorio per decifrare l’onda rossa che sarebbe venuta.

A sentire Gluesenkamp Pérez sembra, però, che il suo principale nemico non sia tanto Donald Trump o il trumpismo, ma Washington. O meglio, Washington come metafora di una distanza siderale delle élite politiche – repubblicane o democratiche – dai problemi quotidiani degli americani. Ed è certo un approccio dal retrogusto populista, se non si coglie il suo lato popolare (e, ovvio, la scaltra consapevolezza di muoversi sulla terra assai poco ferma di un collegio colorato di rosso Trump).

Il terzo distretto dello stato di Washington, dove Gluesenkamp Pérez è stata eletta due volte, andando in giro per townhall con la sua Toyota scassata e il suo cane Uma Furman, è composto per il 78 per cento da elettorato bianco sottoscolarizzato, reddito sotto la media nazionale, con un mix di aree rurali e suburbane che hanno votato Trump alle presidenziali. La prima volta che MGP si candidò al Congresso il Partito democratico non le sganciò neanche un dollaro, dando per perso quel collegio (era data al 2 per cento di chance di vittoria). E invece.

Quando si lamenta – ne abbiamo parlato insieme per il Foglio, in un confronto tra Italia e Stati Uniti attorno a cosa significhi essere democratici e riformisti in una stagione di polarizzazione spinta e leadership radicali – della “agenda politica clickbait cucinata a Washington” o auspica “più persone al Congresso che abbiano esperienza di come si cambia un pannolino, si lavora in officina o si guida un camion” risuona con il suo elettorato, gente della contea di Skamania che ai troppi avvocati incravattati in Campidoglio preferisce disegni di legge, come quello presentato proprio da Gluesenkamp Pérez, sul diritto a ripararsi da soli (le cose).

Dalla parte opposta di Trump, non le sentirete mai utilizzare i toni corrosivi dei suoi colleghi democratici. Sui dazi, ad esempio, MGP concorda che “non ci sia dubbio che la nostra nazione abbia bisogno di rafforzare la manifattura domestica e di tornare a essere produttori, e non solo consumatori. Abbiamo bisogno di produrre merci durevoli che sostengano il lavoro americano. Per farlo – sferza – abbiamo bisogno di affidabilità (predictability) e investimenti nel commercio – e al momento non stiamo vedendo né l’una né gli altri”.

Nella sua retina c’è una politica a tre dimensioni che non si rassegna alla polarizzazione destra-sinistra: “Molta gente che conosco non ha valori che ricadono alla perfezione sotto un partito politico. Non è il fatto di essere conservatori o moderati o progressisti – piuttosto di rappresentare la gente che lavora e il mio distretto, sopra ogni cosa. Le soluzioni si trovano lungo tutto lo spettro politico”.

Già, ma come la mettiamo con Trump, insisto.

“La polarizzazione è una cazzo di droga e il presidente è una figura controversa” (non la sentirete dire niente di più corrosivo di questo: “controversa”). E prosegue: “Molti parlamentari hanno capito che possono ottenere più click online e più ospitate in tv combattendo instancabilmente e negativamente tutto ciò che il presidente posta su Twitter”. E i suoi compagni di partito sono serviti.

Per MGP questa è una trappola in cui non si deve cadere: “I democratici non possono aspettarsi di vincere una elezione senza dare corpo a una alternativa che sia più coinvolgente e utile di quella che l’altra parte può offrire”, sapendo che “nessun partito politico o singolo esponente ha il monopolio delle buone idee, nessuna persona ha tutte le risposte”.

Siamo al cuore del ragionamento, e forse anche del successo di questa deputata, determinata e inquieta, la questione della rappresentanza, di chi portiamo in Parlamento.

“Quando viaggio per il mio collegio, sento parlare molti di leoni marini e salmoni, della proliferazione del granchio verde o del fatto che le luci dei fanali delle auto sono troppo brillanti, e non di chi si candiderà a Presidente o di cosa c’è su Fox News o Msnbc ogni sera. Invece di essere indulgenti o di parlare alla gente di tutto tranne delle cose in cui crede o dei suoi valori, i democratici dovrebbero, invece, focalizzarsi su come risultare più utili alle loro comunità di riferimento”.

E’ esattamente il motivo per il quale i suoi elettori hanno scelto lei sulla base dei loro “bisogni locali” e non un candidato concentrato solo sulla agenda politica nazionale o sulle guerre culturali che compattano il voto Maga e dividono la tribù democratica. Per questo, passare il tempo con le persone della tua comunità è una parte rilevante del mandato politico che ti viene affidato (“è divertente imparare dai miei elettori, vedere le questioni attraverso nuove lenti. Così come è importante continuare a mostrarsi di persona, anche se c’è qualcuno che mi vuole urlare contro”).

Non sempre le posizioni centriste di MGP vengono prese bene: la sua officina si è trovata bersagliata da false recensioni negative – fuoco amico – per le posizioni politiche che mantiene più che per come monti un carburatore. E non sono mancate contestazioni in pubblico, soprattutto sulla questione mediorientale, in tempi in cui la sua bipartisanship le viene rimproverata come uno stigma di collaborazionismo. Gluesenkamp Pérez non pare affatto intimidita: “Porto la mia indipendenza in fronte e metto sempre la mia comunità per prima quando prendo decisioni. Rappresento un ampio spettro di voci, così è impossibile per ognuna di esse essere d’accordo con me al 100 per cento e va bene così”. Una autonomia che riflette, secondo MGP, “la stragrande maggioranza del nostro paese che non vuole più battibecchi faziosi o estremismo, ma risultati, compromesso e bipartisanship”.

Ecco, il compromesso, una parolaccia nella attuale scena politica, così bianco e nero, noi contro di voi: “Fare piccoli passi avanti verso ciò che serve alla nostra comunità invece di perdere tempo con le favole è ancora una manifestazione molto forte dei valori in cui la mia comunità si riconosce. I compromessi sono preziosi, perché senza di essi ci ritroveremmo davanti a un mancato avanzamento”. “Una politica che dia meno spettacolo e sia più utile”, ribadisce. E torna questa idea di utilità.

Lasciando intendere che trovare un terreno comune per realizzare ciò che ci chiedono gli elettori, tutti gli elettori, non solo quelli della nostra parte, sia un po’ la missione alla quale mantenersi fedeli, una volta entrati in Parlamento: “Abbiamo bisogno di un Congresso che rappresenti l’ampia diversità delle esperienze americane. E’ meglio avere rappresentanti leali alle loro comunità che gente che si illude di usare trucchetti di posizionamento come pozione magica per sembrare più autentica”. Un legame che viene prima dei programmi e della ottusa disciplina di partito (“sono ferocemente leale al mio distretto, non alla agenda di un partito nazionale”).

Anche la sua fede religiosa e il suo personale approccio al cristianesimo non sono sempre digeriti molto bene a sinistra: “Sono stata criticata per le mie convinzioni religiose e molte persone nella mia comunità si sono sentite tollerate in alcuni momenti per il fatto che credono in Dio. Credo fortemente nella separazione tra chiesa e stato, e ciò non confligge con la mia fede in Dio. Essere una democratica che può discutere delle Scritture fa parte del modo con cui entro in connessione con i parlamentari dell’altra parte e la mia fede anima una discussione più profonda, più deliberativa sulla nostra democrazia”. Una koinè che fa inarcare più di un sopracciglio fra i democratici. Così come i temi legati alla sicurezza, suo cruccio.

Questioni che mordono duramente l’elettorato, come l’epidemia di fentanyl: “Le comunità rurali si stanno svuotando, sono state ignorate troppo a lungo. Vogliamo sapere chi e cosa attraversa i nostri confini, e vogliamo sapere anche chi esce e perché. Possiamo onorare il principio costituzionale del giusto processo E cacciare i membri delle gang che sono entrati illegalmente nel nostro paese. Ciò che la maggior parte dei miei vicini vuole sta in una via di mezzo – e siamo stufi che ci venga offerta una falsa scelta”. Molta, troppa politica non si è accorta di come il fentanyl sta devastando le comunità americane: “Dobbiamo rafforzare l’intervento della legge, irrobustire l’interdizione ai nostri confini e investire di più in soluzioni per trattamenti efficaci. Dovrebbe essere un tema bipartisan”.

Tema che risuona con l’impostazione dei Blue Dogs, la piccola fazione centrista del Partito democratico, alto lignaggio e numeri consistenti ai tempi dorati di Clinton, oggi assai ridotta in tempi di polarizzazione. Assieme a Jared Golden ed Elissa Slotkin, MGP (che dei “cani blu” è diventata copresidente), tuttavia, ha rivitalizzato l’influenza di questo spezzone democratico che si è concesso una miniconvention dove la congresswoman di Southwest Washington è stata accolta come una star, cappellino in testa e stivali da cowgirl.

“I Blue Dog propongono soluzioni moderne a sfide moderne, ma continuiamo a essere attaccati al nostro antico mantra della responsabilità fiscale”, rivendica. “La gente a casa sa come far tornare i conti e ripagare i debiti, e stiamo lavorando per portare questo atteggiamento al Congresso. I Blue Dog oggi flettono il muscolo del centro per rappresentare in maniera indipendente valori bipartisan di senso comune, portando una lente locale a livello federale”.

Di qui, l’attenzione ai temi iper-locali che è una vera e propria ossessione per MGP, chiunque frequenti i suoi social se ne accorge. Raramente ingaggiata su temi nazionali (e anche quelli li declina sempre con uno sguardo al proprio territorio). La sega a nastro che campeggia nel suo ufficio a Capitol Hill, ad esempio, non è una strizzata d’occhio a Milei, ma al nonno tagliaboschi e all’economia della sua constituency. Lo stesso “diritto a riparare”, la proposta di legge che prevede la possibilità di potersi aggiustare i prodotti da soli e che le ha dato una certa notorietà e attenzione nazionale fino ad arrivare al podcast con Ezra Klein o a profili di primo piano su Politico, muove dall’idea che l’America sia un paese di manifattura (“il fai-da-te è nel nostro Dna”). Al New York Times ha teorizzato che gli Stati Uniti “hanno rimpiazzato l’idea della libertà con quella della libertà di consumare. Ma noi non siamo solo consumatori, siamo amministratori (steward), siamo produttori”.

Ecco, l’idea di stewardship, a metà tra la cura, la custodia, l’accompagnamento, la gestione, il buon governo e l’amministrazione, torna spesso nei ragionamenti più larghi di Gluesenkamp Pérez; stewardship che, addirittura, contrappone, o meglio sovrappone alla leadership. “Sta a ognuno di noi amministrare le nostre comunità e la democrazia, ragion per cui ha senso che io rappresenti la mia comunità, tenendo presente il più ampio spettro di voci”.

Un passo indietro rispetto a una leader frontale come Alexandria Ocasio-Cortez – della quale, appunto, Gluesenkamp Pérez sembra la risposta moderata, riformista – la sua idea di politica appare sempre legata alla sua comunità, immersa in essa, imprescindibile, tanto a volte da non riuscire a distinguersi, in una fusione totale. Se possiamo immaginare AOC senza la sua New York, magari proiettata verso la Casa Bianca, impossibile pensare a MGP fuori dagli alberi secolari e la camicie a quadri della sua constituency.

Quando mi ricorda che “il messaggio è il messaggero” sta dicendo che sulle spalle degli eletti – ancora una volta il tema della rappresentanza – deve gravare il peso di chi al Congresso ti ci ha mandato. In termini di responsabilità e coerenza e rispetto (parola chiave, anzi architrave), e prima delle appartenenze e affiliazioni. “Somiglio al mio distretto”, ripeteva in una lunga intervista con Politico. Al Foglio dice: “Molti dei miei elettori vogliono che io mi concentri sul perché non si possono più permettere di andare in frutteria o perché i loro figli non hanno l’aria condizionata nelle scuole, e non su questioni che sono assai remote dalla loro esperienza quotidiana”.

Quando chiede più ore di laboratorio nelle classi, e meno consumo di social e video online non cerca di issare divieti per i ragazzi, e tuttavia “non possiamo dire ai nostri allievi più brillanti che se ne devono andare di casa in un college in città per diventare qualcuno nella loro vita”.

Questo, ovviamente, non le impedisce di alzare lo sguardo ai grandi temi internazionali, come il sostegno ferrigno all’Ucraina: “Il nemico del nostro nemico è nostro amico. E’ nell’interesse del nostro paese che l’Ucraina sia nella posizione più forte per negoziare la fine della guerra alle sue condizioni, e non a quelle di un despota come Putin. Manteniamo le promesse coi nostri alleati e difendiamo la libertà e i valori democratici che ci sono cari”.

Eppure torniamo sempre lì, a questo discorso sulla democrazia, su cosa dovrebbe essere e come sta diventando, in parlamenti che non somigliano più agli elettori che li votano: “Siamo tutti stanchi del fatto che ogni elezione sembri sempre l’ultima. Non acquisiamo democrazia con un voto in una elezione o con una strategia ottimizzata a un singolo ciclo elettorale. Facciamo democrazia ricostruendo il nostro tessuto sociale, restando coinvolti nelle nostre comunità e trattando i nostri vicini di casa con rispetto, anche se non siamo d’accordo con loro”.

Un po’ come Ted Lasso alla sfida di freccette (“siate curiosi e non spocchiosi”), proprio la curiosità si affaccia spesso nelle parole di Gluesenkamp Pérez: l’interesse per gli altri, a quello che ci dicono, quello che possono insegnarci di nuovo, che non sappiamo e che ci può far crescere e che portiamo con noi, nel lavoro politico.

Le chiedo, concludendo: “Alla fine, la politica non significa esserci?”. Replica: “Direi che è essere presenti, utili, e ascoltare con curiosità e umiltà”. Avercene.

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