Stephen Miran dalla Casa Bianca alla Fed per infastidire Powell

Capo consigliere economico di Trump, è stato nominato temporaneamente nel Board della Fed fino a gennaio 2026. Critico su Powell, sostiene tagli tassi, dazi e riforme per rafforzare controllo politico

Donald Trump ha scelto il suo capo consigliere economico, Stephen Miran, per sostituire nel board della Fed la democratica Adriana Kugler, che si è dimessa a sorpresa alcuni mesi prima della fine del mandato. Il presidente ha lasciato intendere che Miran – se confermato dal Senato – dovrà mantenere il posto fino al 31 gennaio: “Nel frattempo continueremo a cercare un sostituto permanente” per i successivi quattordici anni. Si tratta di una scelta cruciale, perché è probabile che il nuovo nominato prenderà il posto di Jerome Powell come presidente della Banca centrale americana. Infatti, è l’unica casella che Trump può riempire nell’immediato: la presidenza di Powell termina a maggio, ma resterà in carica come guida del board della Fed fino al 2028, a meno che non abbia in mente un’uscita anticipata di cui al momento non vi sono segnali.

Il board della Fed è composto da sette membri: oltre al presidente, tre democratici (il vicepresidente Philip Jefferson, Lisa Cook e Michael Barr) e due repubblicani, nominati da Trump durante la sua prima presidenza (Christopher Waller e Michelle Bowman). Miran probabilmente si unirà a questi ultimi nel rendere più complicata la vita di Powell e meno forti gli equilibri a suo favore: in ballo ci sono le decisioni sui tassi, che secondo il presidente dovrebbero essere tagliati ma che la Fed sta mantenendo stabili per timore degli impatti inflazionistici dei dazi. Come la pensa Miran sul tema?

Prima di arrivare alla Casa Bianca, era direttore delle strategie del fondo Hudson Bay Capital Management; aveva perseguito un dottorato in Economia a Harvard e, durante la prima Amministrazione Trump, era stato consigliere del segretario al Tesoro Steven Mnuchin. A suo avviso, il sistema commerciale internazionale soffre di profondi squilibri, dei quali fanno le spese soprattutto gli Stati Uniti. Ciò sarebbe dovuto in buona parte al ruolo di valuta di riserva del dollaro, che ne farebbe un onere (e non un privilegio) in quanto una moneta troppo forte alimenterebbe il deficit commerciale. Pertanto, gli Usa dovrebbero essere “risarciti” dai partner commerciali: i dazi servono proprio a perseguire questo riequilibrio (ne ha discusso Nicola Rossi sul Foglio del 9 aprile).

Per quanto riguarda la politica monetaria, Miran ha lungamente criticato Powell: paradossalmente, fino a poco tempo fa lo accusava di essere troppo lassista, mentre oggi lo attacca per il motivo opposto. A suo avviso, nel periodo post-pandemico la Fed ha sottovalutato i rischi inflazionistici, di fatto rendendosi coprotagonista della politica fiscale americana attraverso tassi ingiustificatamente bassi. Addirittura, ha più volte accusato Powell di essere ostaggio delle “colombe”, ben pronte ad accettare un’inflazione più vicina al 3 che al 2 per cento pur di non danneggiare il mercato del lavoro, quando invece la Fed avrebbe dovuto frenare il surriscaldamento dell’economia pur di garantire la stabilità dei prezzi. Negli ultimi mesi, Miran ha cambiato il tono delle critiche, allineandosi alle sparate di Trump contro Powell: recentemente ha spiegato che è il contesto a essere cambiato, in quanto la minaccia dell’inflazione sarebbe meno pressante grazie alle politiche offertiste del presidente. “Politiche che espandono il lato dell’offerta dell’economia attraverso una deregolamentazione aggressiva, incentivi fiscali per l’aumento dell’offerta di lavoro e capitale e che perseguono l’abbondanza energetica – ha scritto su X il 23 luglio – sono enormemente disinflazionistiche. I dazi, nel frattempo, producono un gettito che crescerà enormemente nel tempo, senza alcun incremento dell’inflazione”. E più recentemente: “Da quando il presidente Trump si è insediato, l’inflazione di fondo si aggira attorno al 2,1 per cento annualizzato, un livello che non si vedeva dalla prima amministrazione Trump… L’indice dei prezzi al consumo complessivo è di circa l’1,8 per cento”.


Da tempo Miran chiede una riforma della Fed, per rafforzare l’influenza della Casa Bianca e porre dei limiti alle “porte girevoli” tra la Banca centrale e l’Amministrazione. Ora è lui stesso a sfruttare la revolving door.

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