La moda arranca, e i marchi tentano la strategia delle spiagge sponsorizzate e della moltiplicazione delle boutique nei luoghi di vacanza per intercettare la fascia alta dei turisti, con risultati dubbi. Così, affermare il Made in Italy artigianale diventa difficile. Buone notizie, però, arrivano da Firenze
Pomeriggio di fine luglio ai bagni Metropole di Santa Margherita Ligure o “Santa”, come diciamo noi milanesi che vi siamo cresciuti e non sappiamo più dove rifugiarci per evitare i cosiddetti “takeover” della moda che, dovendo forzatamente fare “branding”, cioè ricordare al mondo che esiste ed è fighissima, da qualche anno a questa parte si è messa a stringere accordi con i lidi dei ricchi veri ma per lo più presunti, e comunque quest’anno desolatamente vuoti tappezzandoli di spugne, cuscini, ombrelloni e tende griffate. Talvolta lo fa con una certa cura del genius loci – sebbene nei tempi eleganti il segno cromatico del locale fosse il giallo, non ci si può lamentare della stampa verde scelta dai Dolce&Gabbana per il Carillon di Paraggi che fa pendant con la celebre sfumatura dell’acqua della cala – talvolta in totale sprezzo della storia del luogo e di quel concetto di cui la moda riempie i comunicati stampa, il famoso heritage, ed è ancora il caso dei Dolce&Gabbana che, dopo aver lastricato di stampe-carretto il Cala di Volpe, capolavoro Anni Sessanta di Jacques Couëlle restaurato di recente, sono stati coperti di contumelie social dai molti conoscitori di design e architettura, orripilati dal contrasto fra le linee morbide, sapienti, di quell’albergo-scultura e il chiasso pseudo-siculo del duo che da anni riveste con lo stesso motivo anche frigoriferi e caffettiere.
Ma per tornare al Metropole, con la sua atmosfera vecchio stampo dove ai bambini è interdetto l’uso della piscina nel parco perché lì si riposa e si legge, per gli schiamazzi c’è la spiaggia dove per ordinanza del sindaco non si può fumare, scesa dalla scaletta fra gli scogli per un tuffo vengo abbordata da una turista straniera molto liftata, cofanata e truccata – sì, sulla battigia – che si lamenta dell’overtourism e “visto che non le sembro italiana”, vuole fare comunella. In vista del presente articolo, sorrido vaga. Racconta di aver preso stanza nell’albergo dei bagni da una settimana e che non le piace niente: né le botteghe che ormai vendono perlopiù robaccia cinese, né l’unica celeberrima e storica drogheria, Seghezzo, che oltre ad essere cara come il fuoco vende cose a lei incomprensibili tipo i funghi porcini secchi e le mandorle ricoperte di zucchero a simulazione dei sassi della spiaggia, né l’intrattenimento serale pubblico scarso perché le è chiaro che la vita, anzi “the nightlife”, si svolga nelle ville, al limite al Covo o in certe trattorie a mezza costa di cui non conosce l’indirizzo e non saprebbe con chi andare. Inoltre, ritiene mostruose, e non è la sola, le due navi da crociera “oveseas”, ancorate al largo, che proprio mentre mi parla stanno scaricando sulla passeggiata a mare centinaia di turisti da piccoli overcraft a motore, e dai quali gli stessi turisti, raggruppati in batterie di venti-trenta unità, vengono condotti come buoi a fare il tour di Portofino, tour in senso proprio perché per ordinanza del sindaco Matteo Viacava, riconfermato di recente nonostante le beghe sul presunto spaccio di borse contraffatte che si teneva in un bar di sua proprietà e molte altre variegate proteste dei residenti sul Monte alle quali dedicammo un articolo un paio di anni fa, non si può sostare, bensì solo deambulare perché la piazzetta ha le dimensioni di un fazzoletto, oltre naturalmente a non potersi sedere per terra per mangiare e camminare lungo Calata Marconi in costume da bagno o a torso nudo, che in una società civile dovrebbe essere pratica normale ma ultimamente viene ritenuta misura di esclusione sociale.
A domanda diretta, l’accento è inconfondibile, la signora conferma di provenire dall’Australia, per la precisione da Melbourne, perciò le chiedo se non colga il paradosso di lamentarsi di pratiche che lei segue per prima, visto che fra aerei e auto, anche col fuso a favore da casa sua al golfo Tigullio sono due giorni di viaggio. Lo sa, si rende conto ma, essendo nipote di italiani, sente di avere un minimo di diritto sulla salvaguardia del Paese, tipo Alberto Sordi emigrato che cerca una Claudia Cardinale illibata; per fortuna non aggiunge che accarezza il sogno di chiedere la cittadinanza, altrimenti allungherei una mano sulla cofana per spingerla sott’acqua e tenercela per un po’. La signora nutre in realtà sogni molto più materiali; è semplicemente seccatissima di tornare a casa a mani vuote. “You can’t make any proper shopping anymore, and I’m not saying Versace or Armani, just something typical and special at a fair price”, bofonchia. Naturalmente su questo punto ha ragione, nessuno vuole acquistare in vacanza capi che può trovare agevolmente nelle città di origine, sebbene i grandi brand si siano premurati da anni di realizzare piccole collezioni speciali, anzi “limited edition” come le definiscono i nuovi analfabeti, vendute nella boutique monomarca aperta nella celebre località o direttamente nella bottega sulla spiaggia. E non si tratta nemmeno di una cosa nuova perché Emilio Pucci nacque così, con una stanzetta aperta alla fine degli Anni Quaranta negli stabilimenti della Canzone del Mare e l’etichetta “Emilio di Capri” che oggi vale oro.
Il punto è che il combinato fra la liberalizzazione del commercio e del turismo di massa, ulteriormente massificato dopo la pandemia, ha portato da un lato a una proliferazione di focaccerie, spaghetterie da passeggio e gelaterie brandizzate che non producono niente ma ricevono dalla casa madre gelati abbattuti, da scongelare giorno per giorno e rimestare come calce sotto gli sguardi estatici dei forestieri che pensano sia quella la “mantecatura” (ho pubblicato una foto dei due mostri delle crociere sui social, mi hanno risposto decine di amiche con gli scatti delle nefandezze che trovano sotto casa la mattina alle Cinque Terre o a Ischia, tipo bicchierini di plastica con gli avanzi delle trofie al pesto e pizza vomitata) e dall’altra a una moltiplicazione sia delle catene della mutanda made in China sia dei brand del lusso che, nonostante le associazioni di settore producano ogni due mesi una ricerca sul valore del turismo in Italia e sulla necessità di far crescere una nuova generazione di artigiani che lo sostengano e lo difendano, stanno stravolgendo di insegne identiche le strade e le botteghe che un tempo rendevano Portofino o Ischia o Capri inimitabili.
Tutto questo è avvenuto, ça va sans dire, scacciando gli artigiani, che non significa solo ceramisti, ma anche falegnami, materassai, tappezzieri, vetrai: a Santa, l’attesa per sostituire un vetro è di un paio di mesi, nel migliore dei casi. L’Italia delle eccellenza non ha avuto la lungimiranza e neanche il potere dei due clan aristocratici che possiedono Londra da tempo immemorabile, i Cadogan e i Grosvenor con i relativi family office, che per non snaturare le vastissime aree immobiliari di loro competenza si riservano di selezionare per mix merceologico le attività che chiedono di affittare spazi e vetrine, evitando di replicare gli stessi servizi a pochi metri di distanza come accade, per esempio, in centro a Milano o a Roma, dove paninoteche e negozi di calzature si alternano come le botteghe di scudi e daghe e quelle dei pesci marci nella celebre parodia di Asterix sui risvolti grotteschi della gentrificazione (in caso, “Asterix e il Regno degli dei”: data 1971, Goscinny e Uderzo avevano visto lungo). L’ultima iper-brandizzazione riguarda corso Umberto I, a Taormina. La teoria di brand globali è ormai pressoché completa, mentre da due anni ha ceduto bottega a una catena, per la precisione Gutteridge, proprietà del gruppo Capri che in questi mesi sta finalizzando la cessione di Versace a Prada, anche il celebre Saro che vendeva porcellane artigianali al piano strada e bric-à-brac d’epoca e di gran gusto nel seminterrato, ed è ormai impossibile gustare una granita al Bam Bar: da quando è stata ripresa in una puntata di quel manifesto del turismo simil-chic del Terzo Millennio che è la serie HBO “The white lotus”, per una mandorla con panna e brioscetta col tuppo, servita da sempre solo ai tavolini, niente asporto, si può stare in fila anche per tre ore, pratica alla quale gli statunitensi si sottopongono con felice rassegnazione fra risate e gridolini, al contrario di noi europei che la riteniamo al di sotto del nostro status culturale, privandoci dunque della granita.
Ma la verità è che, anche senza le indagini della Procura di Milano sul caporalato che sta infliggendo al sistema della moda nazionale delle botte reputazionali da cui farà fatica a riprendersi, il lusso Made in Italy sta vivendo la sua peggiore stagione da quando, vent’anni fa, l’irruzione del fast fashion lo costrinse a rivedere tempi e modi di produzione. Il progressivo spostamento dell’asse strategico dei grandi brand sul turismo non sembra però premiarlo, perché buona parte di quell’immane massa che si è riversata dopo il Covid sulla piccola Europa e in particolare sull’Italia non è solo disinteressata alle firme che, volendo e per quanto riguarda gli Stati Uniti al netto dei dazi, potrebbe trovare agevolmente a casa propria, ma non può permettersi, soprattutto dopo che il vertiginoso aumento dei prezzi degli ultimi due anni le ha rese inavvicinabili a lei e offensive per chi, invece, potrebbe fare acquisti senza pensieri ma non ambisce allo status di boccalone.
Chi conosce il valore del denaro non vuole essere preso in giro, va dicendo da tempo Brunello Cucinelli, uno fra i pochissimi che in Italia abbia realizzato un utile importante anche nel primo semestre dell’anno in corso (per la precisione 684 milioni di ricavi, in aumento del 10,2 per cento), insieme con il gruppo Prada, in crescita similare anche grazie al balzo in avanti del cinquanta per cento circa di Miu Miu. Aver escluso dall’accesso alla moda i clienti aspirazionali che sono la ragione della sua affermazione, anzi il suo fondamento, è stata una decisione suicida, in tanti lo scriviamo da due anni almeno; si è trattato di una scelta dettata dalla profonda ignoranza delle dinamiche storiche, delle ragioni ultime della nascita della moda come la conosciamo, e non si è ancora finito di pagarne le conseguenze; in realtà, si è appena iniziato.
Lo scorso giugno, a Pitti Uomo, con Banca Ifis presentammo la prima edizione di una ricerca internazionale sul progressivo spostamento dell’asse dei consumi dalla moda verso il cosiddetto turismo “esperienziale”, in Italia anche verso la salute perché sì, siamo sempre più anziani e, oltre ad avere gli armadi pieni da un overshopping quarantennale di cui oggi ci liberiamo nei negozi di vintage, siamo anche pieni di acciacchi; un dato dell’indagine che avrebbe meritato di essere commentato più a lungo, lo faccio adesso, riguardava le diverse soluzioni scelte da chi dichiarava di spendere meno in moda (un differenziale pro capite del 2,2) per destinarle allo “svago”: prima ancora del benessere personale, arrivavano, o per meglio dire arrivano, viaggi (35 per cento), enogastronomia da provare anche in casa, retaggio pandemico (26 per cento) e, ottima notizia, “arte e cultura”, principalmente mostre e cinema. In parallelo, e sebbene i giovani siano come ovvio i principali destinatari della moda, dalla ricerca emergeva chiaramente come siano sempre più interessati da un lato al vintage, e dall’altro alla qualità e alla storia di quello che comprano; inclusa, ovviamente, la tutela del lavoro, che significa pagare la manifattura al giusto prezzo, talvolta basterebbero cinque euro in più all’ora. Dunque, cultura (vera), qualità (effettiva), etica (comprovabile).
Per tanti marchi, la miopia che ha guidato le scelte di troppi manager degli ultimi anni, la convinzione che, dopotutto, oltre certe dimensioni vendere automobili, gelati o moda fosse la stessa cosa, e che stressare i ricavi con multipli del 40-50 fosse la conseguenza naturale del valore di marca, equivarrà purtroppo alla chiusura o alla sostanziale scomparsa, mentre si registra già adesso, ed è una splendida notizia, la crescita di molti marchi indipendenti che non mirano alla dominazione del globo ma si accontentano di essere quello che sono: capi e accessori creativi e ben fatti, in serie, a prezzo accessibile. Non couture, non lusso, ma buona confezione, con un forte contenuto di design. Qualche nome: la svedese Toteme, Tove, il brand delle due amiche londinesi Camille Perry e Holly Wright, la marca di borse francesi Polène che, non a caso, ha già attratto l’interesse di Lvmh.
Nei giorni scorsi, alla presentazione della semestrale, la cfo di Lvmh Cécile Cabanis, la stessa manager che, in merito all’amministrazione giudiziaria comminata a Loro Piana per omesso controllo nella catena produttiva, si è chiamata fuori asserendo che il caporalato è un problema dell’industria italiana e ha ricevuto in risposta una dura presa di posizione da parte di Confindustria Moda, ha annunciato che nel prossimo futuro, la scrivo in sintesi, il conglomerato si libererà dei marchi meno profittevoli. Nell’ambiente si dice che il primo a essere messo in vendita sarà Marc Jacobs, cioè il brand che, per quasi due generazioni, ha rappresentato l’accesso alla moda per milioni di appassionati, anche giovanissimi, e questo senza considerare quanto abbia fatto il designer statunitense, che fra poche settimane presenterà a Venezia il documentario-omaggio dalla sua amica più cara, Sofia Coppola, in diciassette anni di direzione creativa di Louis Vuitton. Fu sua, per fare un esempio, l’idea della collaborazione con Takashi Murakami, che nei mesi scorsi è stata replicata e rimessa in vendita, pare con buoni risultati.
La fortuna della moda negli ultimi cinquant’anni, anche negli ultimi centocinquanta in realtà, si deve alla sola ragione che schiere di gente provvista di un po’ di denaro ma priva di gusto aveva bisogno di essere rassicurata sulla bontà delle proprie scelte. La moda ha avuto fortuna perché vestiva le madame Verdurin, non le duchesse di Guermantes che davano ordini a Charles Frederick Worth e capivano quando fosse giunto il momento di rivolgersi a Paquin: il “marchio”, l’etichetta, è sempre stata usata per questo scopo, accompagnata lungo il suo cammino di affermazione da couturier non di rado geniali, promotori di cambiamenti sociali o intelligenti dissacratori, vedi Demna e le sue gonne a portafoglio ricavate dagli asciugamani degli alberghi, un’ immane presa per i fondelli delle smanie borghesi che fra poco entrerà nei musei come il pissoir di Marcel Duchamp che ne è l’antesignano e al tempo stesso l’omologo nell’arte.
Ma la verità pura e semplice è che decenni di prêt-à-porter griffato hanno fortemente ridotto, quando non azzerato, la capacità della maggior parte della gente di distinguere qualità e manifattura che un tempo erano patrimonio comune: le nostre nonne entravano in un negozio di tessuti e sapevano distinguere le diverse qualità di un crespo di lana o di uno shantung. Fate la prova oggi, nei pochi negozi di stoffe sopravvissuti. Il lusso ha preso pieghe imprevedibili e tranne in rari casi, che però non hanno fatturati da 3 miliardi di euro, si è trasformato in mass market sostenuto da un buon marketing e un’ottima comunicazione, mentre al contempo sempre meno persone possiedono la cultura e la conoscenza per riconoscere e attribuire il giusto valore all’artigianato che reclamano e al Made in Italy, peraltro colpito al cuore dall’impossibilità dei brand di controllare filiere anche di duemila fornitori.
Tutti però – e l’australiana del Metropole ne è la conferma – cercano la “tipicità”, l’esclusività, il “colore locale”. Per fare un esempio, ci sono sempre signore interessate nella piccola boutique del “Pesce Pazzo”, etichetta tratta da una filastrocca che le narrava la nonna, celebre fotografa subacquea, che la giovane Laura Mendolia ha aperto nello stabilimento balneare di famiglia di fronte all’Isola Bella, ai piedi di Taormina; non molte, però, sono molti disposti a spendere cinquecento euro per una piccola coffa con i manici e i bordi di velluto e le frange di coralli fatta a mano, che non è nemmeno un prezzo eccessivo se si pensa al lavoro e al valore delle pietruzze, mentre è – o forse era – disposta a spenderne il triplo per una di paglia e pompom silgata D&G. Sempre a Taormina, Pietro Paolo Longhitano, altro trentenne brillante che qualche anno fa ha acquisito un marchio di bijoux che faceva furore nei Sessanta, Coppola e Toppo, ha preferito affidare a una delle boutique di Mario Dell’Oglio sul corso la vendita di una serie di gioielli fatti a mano e smaltati: la vicinanza con i grandi brand lo aiuta a rafforzarne la percezione fra chi, da solo, non saprebbe farlo.
Per questo, e naturalmente innanzitutto per la portata sociale visto che includerà spazi di sostegno per famiglie fragili, acquista ancora più valore il progetto Recreos per la rigenerazione dell’area di via Palazzuolo e via Maso Finiguerra, nel centro storico di Firenze, attraverso quella che il presidente della Fondazione Crf, Bernabò Bocca, definisce “la sua storica vocazione artigiana”, persa negli ultimi decenni sotto i colpi di un degrado progressivo, evidente anche dal punto di vista della sicurezza come ammette la sindaca Sara Furnaro. Dopo la firma, lo scorso maggio, della convezione con il Comune, la Fondazione sta selezionando giovani artigiani a cui assegnare, per i tre ed energetico, nell’ambito di un piano architettonico studiato da Luca Dini con il suo team e che, per la parte tecnica, sarà sviluppato insieme con gli uffici comunali. Duole dirlo, ma la moltiplicazione dei piccoli spacci di bevande alcoliche aperti fino a tardi e di tutto quel commercio di terz’ordine che nelle città a maggiore vocazione turistica scaccia le imprese locali per servire i visitatori di giornata e le comitive degli schiamazzi notturni, spesso non si limita a deturpare il tessuto urbano, aumentando il numero di negozi sfitti o abbandonati o malamente sostituiti da vendite dubbie, ma determina una messa in mora per la tutela pubblica che è quanto è successo, appunto, alla centralissima via Palazzuolo. Racconta Bocca che l’idea, sostenuta da un piano di 5 milioni fino alla messa a regime e un gruppo di lavoro che “si è impegnato a promuovere un percorso di coinvolgimento della comunità”, parte da un “primo screening” di artigiani effettuato dalle coop toscane, ma coinvolge anche i residenti e, come ovvio, i proprietari dei fondi attualmente sfitti, in totale quarantatre, che la Fondazione si è impegnata, previo accordo con i proprietari, a ristrutturare e a mettere a loro disposizione gratuitamente, per tre anni. Dall’annuncio del progetto, lo scorso dicembre, ad oggi, sono arrivate 222 manifestazioni di interesse, circa ottanta artigiani hanno fatto il colloquio preliminare.
La maggior parte di loro, quasi settantacinque, provengono da arti visive e artigianato artistico, cioè pittura, disegno, scultura, grafica, incisione, prototipazione, mentre altre 34 realtà rientrano nel cosiddetto artigianato tradizionale: sartoria, borse, abiti, liuteria. Sono arrivate anche 19 proposte di laboratori, gallerie e luoghi dedicati ad attività artistiche. Finora, dice ancora Bocca, sono state approvate due richieste: la prima, da parte di un laboratorio di oggettistica, e la seconda da uno studio di arredo e design. Inoltre, sono già stati attivati due fondi permanenti: lo Spazio Recreos, una sorta di “cabina di regia” che include il family hub, e lo Spazio Periodico, residenza per artisti e designer sul modello dell’Accademia di Francia e che, proprio come la veneranda istituzione voluta quattro secoli fa dal ministro Colbert, proporrà un calendario di attività per “far vivere via Palazzuolo anche la sera”. Che la città-simbolo dell’eccellenza manifatturiera italiana da oltre cinquecento anni debba ricorrere a un’iniziativa pubblica, ma in realtà privata, per ricostruire sé stessa, per salvaguardare la propria anima, la dice lunga su quali siano gli effetti della mancata pianificazione, del laissez aller; ancora, dello sguardo poco lungimirante sul valore dell’Italia innanzitutto come meta turistica, sull’obbligatorietà di dire molti no, di non svendere, di non massificare, che non significa cristallizzare l’esistente, ma tutelare l’unicità. Per questo, quando Bocca aggiunge che “alcuni grandi brand del lusso stanno valutando un coinvolgimento”, anche in forma di tutela nei riguardi di alcuni artigiani che sono già produttori, gli chiedo se valga davvero la pena di caratterizzare fin dal principio un modello che, tenuto lontano dai brand, potrebbe ridare fiducia alla gente nel valore della moda e dell’eccellenza italiana. Si parte nel 2026: già altre città, che subiscono gli stessi effetti dell’overtourism e della massificazione del gusto, si sono fatte avanti con Fondazione Crf per studiare il modello e replicarlo.