La vera passione di Donald Trump è l’architettura: ecco la nuova sala da ballo della Casa Bianca

Il nuovo progetto, che potrebbe però trovare imprevisto appoggio bipartisan, è stato affidato allo studio McCrery Architects di Washington che “sono ben noti per il loro stile classico”

Donald Trump non ha pace. Ma tra dazi e minacce di dazi, tra ultimatum e penultimatum a Putin c’è una cosa che gli sta ancora più a cuore del golf; è l’architettura. In particolare quella della Casa Bianca. Tutto era partito dal restyling dello Studio ovale portato a termine qualche mese fa, con inserti d’oro pressoché ovunque, ma adesso il presidente arancione ha annunciato la costruzione di una sala da ballo da oltre 8mila metri quadrati che potrà ospitare 650 ospiti e costerà 200 milioni di dollari, tutti pagati di tasca sua (insieme ad altri benefattori anonimi che sicuramente non vorranno nulla in cambio). “Sarà un grande progetto per la mia eredità”, ha dichiarato giovedì. Il piano prevede cristalli e lampadari dorati, colonne corinzie placcate oro, soffitti a cassettoni con intarsi aurei, lampade da terra dorate e un pavimento di marmo a scacchi. Le tre pareti di finestre ad arco guarderanno sui giardini sud della Casa Bianca.

“Nessun presidente sapeva come costruire una ballroom”, ha dichiarato a fine luglio durante un incontro con Ursula von der Leyen nella sala da ballo di cristallo nel suo golf club di Turnberry in Scozia. “Potrei prendere questa qui, e spostarla là, e sarebbe bellissima”. L’ispirazione per questo nuovo progetto viene da lontano, è una specie di ossessione. Già nel 2010, quando Obama era presidente, Trump aveva chiamato la Casa Bianca proponendosi di costruirne una, a sue spese. “Sarebbe costata circa 100 milioni”, ha ricordato Trump. “Mi sono offerto di farla, ma non ho mai avuto risposta”. All’epoca Josh Earnest, portavoce di Obama, aveva commentato: “Non sono sicuro che sarebbe appropriato avere una targa dorata con scritto Trump alla Casa Bianca”. E “eravamo più focalizzati su cose più serie” dice oggi alla Cnn Deesha Dyer, social secretary di Obama dei tempi.

Durante il primo mandato, racconta Trump, lui era troppo impegnato a difendersi dai nemici per occuparsi di ristrutturazioni. “Dovevo concentrarmi”, ha spiegato all’inizio dell’anno. “Ero il cacciato. Ora sono il cacciatore. C’è una bella differenza”. Frase che suona vagamente minacciosa, com’è nello stile del presidente-costruttore (“amo le costruzioni, le conosco meglio di chiunque altro”, ha appena ribadito). A proposito di stile, anche questa aggiunta sarà classica, coerentemente con l’ordine esecutivo del 2020 e con lo “statement” di gennaio scorso, due momenti in cui Trump ha ricordato che per lui gli edifici pubblici devono avere la forma di edifici pubblici (di una volta). Così questo progettone è stato affidato allo studio McCrery Architects di Washington che “sono ben noti per il loro stile classico”. James C. McCrery II insegna architettura classica alla Catholic University of America di Washington ed è specializzato in chiese cattoliche in stile. E’ stato un allievo di Peter Einsenman, il padre del post modernismo americano, all’università dell’Ohio, e poi chiaramente si è ribellato, e ora è nemico di tutto ciò che non è tradizionale.

Il nuovo progetto trumpiano potrebbe però trovare imprevisto appoggio bipartisan: l’attuale salone delle feste può contenere infatti al massimo 200 persone, e quando si è di più si montano dei gazebo di plastica sgocciolanti che in caso di pioggia “rovinano le bellissime gonne e le acconciature delle signore” ha ribadito Trump, col suo solito tono da maître di casinò. Anche il famoso giardino delle rose è stato appena cementificato, anzi pietrificato, per non “rovinare i tacchi alle signore che altrimenti sprofondano nell’erba”. Chissà che direbbe Jackie Kennedy, che ai tempi l’aveva fatto ridisegnare dalla paesaggista Rachel “Bunny” Mellon: ma ora via l’erba, dentro le mattonelle, con tanto di sigilli presidenziali incastonati nella pietra e tombini a forma di bandiera americana. Altri simboli patriottici sono stati inseriti negli ultimi mesi: due enormi pennoni con bandiera americana ora svettano sui giardini nord e sud, così alti che si vedono dall’aeroporto Reagan a otto chilometri di distanza, racconta sempre la Cnn. Trump ha personalmente scelto l’acciaio galvanizzato dei pali e perfino le corde. “Nessuno come lui cura i dettagli”, ha detto la portavoce della Casa Bianca.




Il problema, se di problema si può parlare, è che i cambiamenti di Trump saranno piuttosto permanenti. Chi avrà il coraggio di rimuovere in futuro codesti pennoni? Sembrerebbe antipatriottico. E rimettere l’erba nel Rose Garden costerebbe un patrimonio. E ancora, una volta costruita la sala per 650 persone è difficile che qualcuno abbia il coraggio di buttarla giù. Quel che è sicuro è che ormai lo stile architettonico è l’unica certezza di Trump: nella sua politica spesso svalvolata e ondivaga, tra le sue dichiarazioni contraddittorie, lo stile Trump è inconfondibile. E a qualcuno non dispiace, e arrivano endorsement imprevisti: Matt Shaw, critico di architettura, ha scritto sul New York Times che in fondo forse è meglio la sala da ballo di Trump del mammozzone dell’Obama Center che l’ex presidente sta costruendo nella natìa Chicago, una specie di prisma di pietra conficcato in un parco. Almeno Trump ha questo tratto coerente e riconoscibile, suggerisce Shaw. Insomma, da quando è morto qualche settimana fa Léon Krier, l’architetto lussemburghese amico di Re Carlo, alfiere del nuovo classicismo in architettura, Trump si candida a protettore globale dell’antimodernismo. Intanto, poi, è stata completamente estromessa la first lady, che all’inizio aveva fatto dei timidi tentativi di restyling della Casa Bianca. Adesso pensa a tutto lui (e forse lei è contenta, così lui si tiene pure occupato, vabbè).

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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