Una Vedova triste e un’occasione persa, nonostante costumi e musica

Battutacce e vieti tormentoni: l’operetta a Macerata meglio dal podio che in scena

L’operetta oggi è un problema. Quando la si mette nelle stagioni liriche sottraendola alle matinée nelle Rsa, non si sa mai bene come farla. Di certo, però, si sa come non farla: per esempio, come La vedova allegra che costituisce la nuova produzione del Mof, alias Macerata Opera Festival, insomma lo Sferisterio, meraviglioso ur-stadio per “il giuoco del pallone” di Leopardi e, per inciso, una delle poche arene liriche estive dove l’acustica è buona davvero e non solo nelle mitomanie locali. Arnaud Bernard è di solito un regista interessante e funziona negli spazi ampi, come dimostrò un Nabucco all’Arena di Verona. Qui sbaglia in partenza. La vedova allegra può essere letta in due modi. O attraverso gli occhiali della nostalgia, come reliquia crepuscolare di una belle époque che poi bella non era affatto, caricandola di nostalgie kakanie da mondo di ieri sì bello e perduto; oppure svelando il rovescio della medaglia e della vicenda, alla fine sordida anzichenò perché tutto ruota, in sostanza, intorno ai milioni della vedova, che devono restare in Pontevedro (che sarebbe poi il Montenegro, dove per di più c’era anche un vero Danilo, fratello della Regina Elena quindi cognato di Vittorio Emanuele III, che fece pure causa a Lehár).

Quello che proprio non si può fare è continuare a replicare l’eleganza farlocca e la leziosità compiaciuta dell’operetta “tradizionale”, che oggi risulta insopportabilmente cringe, come diciamo noi gggiovani. Dopo Kosky alla Komische o Michieletto alla Fenice, ancora un Njegus che spara battute trucide già vecchie ai tempi di De Gasperi (e per di più, chissà perché, in napoletano)? Tutti ovviamente si muovono saltellando ripetendo i tormentoni che piacevano tanto alla povera nonna e alla cara zia. E poi, proprio perché si riconosce, giustamente, a Lehár la stessa dignità di Verdi e Puccini, si dovrebbe trattarlo con un minimo di rispetto: a parte l’orrenda traduzione, l’atto di Maxim’s viene inzeppato di venti minuti di Offenbach, che c’entra come i cavoli a merenda, ovviamente con il galop infernal di Orphée aux enfers (“can can”, in ore stultorum), così dal pomeriggio a Villa Arzilla passiamo al tour “Parigi by night” comprensivo di cena in locale “tipico”. E, a parte tutto, se una Vedova allegra inizia alle 21 e finisce a mezzanotte e mezza vuol dire che sbrodola. Si obietterà: è una produzione estiva, in uno spazio e per un pubblico nazionalpop. Ma lo Sferisterio negli ultimi anni ha costruito le sue fortune non proponendosi come un’Arena dei poveri, ma con produzioni innovative e perfino coraggiose. Lo stesso pubblico che batte le mani a ritmo (sbagliato) su Lehár applaude anche le due riprese verdiane di quest’anno, il Macbeth della Dante e il Rigoletto di Grazzini, bellissimi spettacoli che tutto sono meno che consolatori o banali.

E’ un peccato perché per questa Vedova si sono fatte anche cose buone, per esempio i costumi deliziosi di Maria Carla Ricotti per il secondo atto balneare, fra la Balbec di Proust e il Lido di Visconti. E soprattutto perché la parte musicale è convincente, a partire dal giovin direttore Marco Alibrando, cervello in fuga perché appena nominato Kapellmeister a Weimar, che invece sa come va eseguita questa musica, con i rubati, le delicatezze e, quando occorrono, gli scatti giusti. Anche i cantanti, benché fuorviati dalle sciocchezze che devono fare, funzionano: Mihaela Marcu nella sua bionditudine provvista di pianissimi e Alessandro Scotto di Luzio, un Cristian De Sica desabusé, e poi Cristin Arsenova, Valerio Borgioni e tutti gli altri, in particolare Alberto Petricca come sonoro Zeta. Ma nel complesso è stata un’occasione persa. Anzi, sprecata.

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