Una catastrofe umana, politica e intellettuale. Ma descrivere ciò che succede a Gaza con criteri moralistici non risolverà il conflitto. Anzi
Il 23 luglio Omer Bartov, uno storico di valore, ha scritto sul New York Times un articolo subito citatissimo in cui ha dichiarato di poter affermare, da studioso dei genocidi, che a Gaza Israele ne sta commettendo uno. Anna Foa si è schierata con lui sabato scorso sulla Repubblica e dichiarazioni dello stesso tipo si moltiplicano, generando sorpresa e angoscia. Avviare una discussione è difficile, e anche deprimente e forse inutile. Si tratta infatti di prese di posizione politiche tese soprattutto a influire sulla politica interna israeliana, che si inseriscono però in una situazione internazionale tesa e priva di luci.
Avendo studiato a lungo le violenze categoriali di massa (dirette cioè contro gruppi specifici) e avendo dato un contributo agli studi sul genocidio, mi sembra tuttavia di poter offrire degli elementi per riflettere. Penso infatti che queste posizioni, sostenute anche da persone a me diversamente care, siano fondamentalmente sbagliate, soprattutto da un punto di vista scientifico, che è quello a me più vicino, ma anche, e tragicamente, da quello politico.
Dal punto di vista scientifico esse rispecchiano la svolta, cominciata negli anni Novanta e oggi dominante nel campo degli studi sui genocidi, che ha portato a definire “genocidi” eventi, sia pure terribili, che non lo sarebbero nemmeno alla luce della sorprendentemente larga definizione che di genocidio hanno dato le Nazioni Unite nel 1948, una definizione che è, ricordiamolo, giuridica e non un concetto intellettuale di interpretazione della realtà.
Questa svolta, che è anche il portato di logiche accademiche di espansione dei confini del campo, è testimoniata con chiarezza dalla recente Cambridge World History of Genocide, espressione di un fallimento scientifico causato dall’adozione di criteri moralistici e politici, che hanno a loro volta generato un fallimento che è paradossalmente morale oltre che scientifico.
Come altro definire il sostenere – seguendo giuristi che fanno un altro mestiere – che sia un “genocidio” la pur tremenda esecuzione di migliaia di maschi bosniaci adulti a Srebrenica? O che lo siano processi storici durati centinaia di anni, con centinaia di attori o ideologie diverse, come quelli, certo disumani, accaduti nelle colonie europee, e non solo in esse? O che sia tale quanto è successo finora a Gaza, dove i morti provocati dalla guerra sono tanti (secondo Hamas 60.000 fino a oggi, di cui 40.000 nei primi 10 mesi seguiti all’invasione), ma dove la stragrande maggioranza dei palestinesi per fortuna vive, sia pure tra sofferenze acutissime, mentre due milioni di israealiani di origine araba vivono, certo magari con angoscia e timore, lavorano e votano nello stato “genocida”?
Se questi sono esempi di genocidio, allora qualunque guerra o eccidio di massa lo è. Ma come qualificare allora gli orrori straordinari per cui il termine fu creato? Se Srebrenica e Gaza sono genocidi, cosa sono i quasi sei milioni di ebrei uccisi sistematicamente, ovunque fossero? Come definire i 3,5 milioni di ucraini fatti morire di fame in soli quattro mesi nel 1933; il milione e mezzo di armeni massacrati nella Prima guerra mondiale; i tre milioni di prigionieri di guerra sovietici lasciati morire di fame nel 1941-42 o i dodici milioni di tedeschi deportati e i 300-400.000 linciati del 1945-1946, tutti eventi che hanno evidentemente una natura diversa?
E perché non sono genocidi il massacro e l’evacuazione di greci e armeni da Smirne nel 1922 o le tante violenze categoriali di massa, ciascuna con migliaia e anche decine di migliaia di vittime, che hanno punteggiato la storia mondiale degli ultimi secoli? Se tutto è uguale, se si può comparare l’evidentemente incomparabile, si perde ogni capacità di comprensione e discernimento, e l’interpretazione (e quindi la qualifica) dipenderanno solo dai rapporti di forza politico-ideologici, dalle passioni morali e dagli interessi, cosa forse inevitabile ma che conduce una disciplina scientifica appunto alla disfatta intellettuale. La categoria stessa di genocidio è diventata infatti inutile per capire, che vuol dire anche distinguere, tramutandosi in un potente strumento di lotta politica. E, cosa ancor più grave, la sua sacralizzazione si sta trasformando, per esempio in Ruanda (dove pure un genocidio c’è stato), in uno strumento di potere nelle mani della minoranza dominante.
Prima di discuterne specificamente, ma non solo, di Gaza, va detto che qui è in corso una catastrofe umana che potrebbe avere esiti terribili, e che è anche una catastrofe politica, intellettuale e discorsiva. Le radici (e le colpe) storiche sono chiare e ne faccio un breve sunto, scusandomi per la sua lunghezza necessaria: uno stato palestinese non costituito per la contrarietà dei paesi arabi; paesi arabi che non hanno accolto i profughi palestinesi, al contrario di Israele che accolse invece gli ebrei cacciati da quegli stessi paesi, di numero circa equivalente; l’atteggiamento moralistico e irresponsabile del diritto internazionale dopo il 1948 e poi e soprattutto a partire dagli anni Ottanta; la propaganda sovietica e il comportamento del mondo comunista, che già dagli anni Sessanta gridava quello che ascoltiamo oggi su imperialismo, coloni, lotta di liberazione ecc. (si può leggere a proposito il saggio su Tablet di Izabella Tabarovsky, Zombie Anti-Zionism); le Nazioni Unite, che hanno nutrito e finanziato il problema dei rifugiati, senza fare nulla per risolverlo, anche per convenienze burocratiche oltre che per motivi politici; la destra e l’estrema destra israeliana, che hanno giocato un ruolo crescente e sempre più velenoso a partire dagli anni Settanta; la cecità dell’Olp che rifiutò gli accordi di Oslo del 1993 (definiti una Versailles da intellettuali irresponsabili ma acclamati come Said) e poi le proposte di Clinton nel 2000; Hamas, che è la principale responsabile della tragedia in corso, e Sharon che le consegnò Gaza anche per indebolire l’Olp; l’asse creato da Teheran; gli interessi, gli errori e i crimini di Netanyahu e le ideologie e le pratiche crudeli e perverse di una parte dei coloni, alcuni dei quali si potrebbero definire “aspiranti genocidi”; l’irrealismo di Trump e naturalmente la povertà intellettuale della sinistra moralista che legge la situazione in termini di opposizione binaria, palestinesi=Gaza contro israeliani=estremisti e coloni, ignorando Hamas (di cui sono paesi arabi e Olp a chiedere una resa che porrebbe fine alla fase acuta del dramma), i conflitti interni al mondo palestinese e a quello israeliano, e la posizione dei paesi arabi che sono oggi di fatto i principali alleati di Israele, anche se continuano a non volerne sapere dei palestinesi.
Questo cocktail mortale ha condotto all’errore dell’invasione militare di Gaza, errore tuttavia forse inevitabile, dato che il massacro del 7 ottobre – che gridava “se possiamo vi ammazziamo tutti” – aveva chiaramente manifestato la volontà di Hamas di mettere fine allo stato di Israele (come oggi sappiamo, nei mesi precedenti i capi di Hamas tenesse riunioni su cosa fare degli ebrei nella Palestina liberata).
Un problema spinosissimo e fonte di continue tensioni e sofferenze, che ha in Hamas il suo nocciolo e che era forse almeno in parte gestibile, si è così trasformato, per il coinvolgimento inevitabile di una popolazione civile che in parte collude con Hamas e in parte la subisce, in un problema dagli esiti potenzialmente catastrofici. Si tratta di una questione che fino al 1948 sarebbe stata probabilmente gestita con un esodo organizzato di massa, come successe nel Caucaso meridionale occupato dai russi nell’Ottocento, a Smirne, nei Sudeti o in Slesia, e in piccolo e in modo diverso anche in Istria, e che oggi rischia di degenerare in sofferenze inaudite a causa del combinato di interessi politici, retoriche nazionalistiche e moralismo irrealistico.
Se ci si interroga sulle radici di quest’ultimo, è evidente che esse affondano nel moto di repulsione europea di fronte alla terribile natura delle guerre accese dal nostro continente nella prima parte del secolo scorso, un moto di repulsione diventato “occidentale” con la nascita, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, di un nuovo Occidente guidato da Stati Uniti allora ancora sostanzialmente europei, alle cui convulsioni terminali stiamo assistendo da circa quindici anni.
Questa spinta iniziale però non basta a comprendere la forza e la pervasività di un fenomeno rivalitalizzato negli anni Ottanta dal collasso del socialismo. Nell’Italia di Berlinguer, come nell’Urss di Gorbachev, la vecchia ideologia fu sostituito da un nuovo insieme che trovava proprio nel moralismo (cioè in un elenco di buone intenzioni prive di teoria e quindi di operatività pratica) il collante che sostituiva il marxismo. Vale la pena di andare a leggere il discorso tenuto dall’allora ministro degli Esteri sovietico Shevardnadze all’Unesco a fine 1988, coi suoi appelli all’unità del mondo, alla scelta libera, al pluralismo politico e culturale, al dialogo e al diritto come sostituti della forza, alla pace attraverso la saggezza, alla forza della politica contro la politica della forza e alla supremazia del diritto internazionale negli affari internazionali. La “moralizzazione” della sinistra, e quindi di buona parte della intelligentsia occidentale derivano quindi dal fallimento ideologico delle sue teorie precedenti. E sarebbe bene ricordare che la benevolente ideologia globalista, che ha trovato nei diritti il suo nutrimento principale, è il frutto della catastrofe intellettuale della sinistra oltre che delle illusioni “neoliberali”.
E’ in questo clima che il genocidio, un termine fino agli anni Ottanta riservato solo alla Shoah (era allora difficile persino far accettare che lo si potesse usare per il grande massacro armeno o per la carestia ucraina), cominciò la sua corsa verso una illimitata estensione. Era una corsa alimentata appunto dal moralismo, specie della sinistra; dalla possibilità di scaricare sull’Occidente colpe prima imputate al capitalismo; ma anche dalla pressione delle vittime di comportamenti crudeli che vedevano nel riconoscimento che sì, anche il loro era stato un genocidio, un risarcimento delle loro sofferenze e una potente arma di lotta politica, trasformando così paradossalmente il genocidio quasi in un segno di onore e privilegio.
In questo quadro, un’Israele in larga parte convinta di essere l’unica vittima di una vero genocidio (in fondo il termine stesso era stato inventato da un giurista ebreo per parlare della Shoah) spicca per la sua quasi totale incomprensione dell’importanza dei discorsi nella politica, e specie in quella internazionale, dove almeno in quel che resta dell’Occidente l’opinione pubblica ha un ruolo di grande importanza. Netanyahu e i suoi alleati al governo, in particolare, hanno commesso un errore dopo l’altro, senza prestare alcuna attenzione ai bisogni della popolazione di Gaza (come è nella natura della loro ripugnante ideologia) ma anche agendo come se un problema discorsivo – vala dire la necessità di spiegare e legittimare le proprie scelte – non esistesse, un errore politico catastrofico che Israele pagherà a lungo. La sottovalutazione del problema ha però radici più profonde, legate alla Shoah e non solo: l’impressione è infatti che dietro vi sia talvolta un comprensibile ma sbagliatissimo atteggiamento che si potrebbe riassumere così: tanto lo sappiamo che ce l’avete tutti con noi (cosa del resto abbastanza vera) quindi che ci importa di voi…
Questo atteggiamento, questo disprezzo della necessità di spiegare al mondo e farsi capire da esso porta alla rovina. Ad esso dà purtroppo oggi un contributo importante una sinistra ebraica che, presa dalla sua crisi di coscienza e dal desiderio di abbattere il male rappresentato dall’odiato Netanyahu, usa anch’essa il genocidio come arma politica, senza accorgersi di compiere così una scelta irresponsabile. Dato l’innegabile, fortissimo antiebraismo (un termine che sarebbe ora di sostituire a antisemitismo, per fare chiarezza, visto che semiti sono anche i palestinesi e gli arabi in generale) presente nel mondo, accusare gli israeliani di star commettendo un genocidio – cosa peraltro finora non vera se usiamo il termine in modo rigoroso, come è indispensabile, e non come arma politica – avrà probabilmente conseguenze catastrofiche. Si nutre infatti così un odio che già c’è, e si complica, non si facilita, la soluzione del terribile problema di Gaza.
Israele rischia così una sconfitta che sarebbe prima di tutto politica e ideologica. E come sta perdendo il sostegno di parte delle élite e delle popolazioni europee potrebbe perdere quello degli Stati Uniti o del Canada. Già oggi, per esempio, nord-americani di origine ucraina cominciano, benché ancora sommessamente, a chiedersi se per ottenere che anche quello russo sia dichiarato un genocidio (cosa che non è grazie appunto alla resistenza ucraina, che ha trasformato un probabile genocidio culturale accompagnato da liquidazioni preventive di gruppi dell’élite ucraina in una sia pur terribile guerra), non convenga sostenere la tesi che ve ne sia uno in corso anche a Gaza. Ritorniamo così alla trasformazione del genocidio da strumento di analisi e interpretazione intellettuale a arma di propaganda politica.
Contribuire a una soluzione la più umana possibile della crisi umanitaria di Gaza, impedendo che esso degeneri ulteriormente, richiederebbe quindi abbandonare il moralismo e il falso binarismo Israele-Palestinesi (ridotti a Gaza); vedere Hamas e le sue enormi responsabilità e fare pressioni per la sua resa; premere su Israele perché nutra la popolazione di Gaza e la tratti con dignità; e immaginare soluzioni politiche realistiche che non possono che passare da un accordo coi paesi arabi e dalla realizzazione da parte di Israele che nessuno può agire senza spiegare, se non a suo danno, che vuol dire anche fare i conti coi limiti che la morale – non il moralismo – ci impone.