Milioni nel cinema invisibile: il tax credit come un sussidio alla sparizione

Film che nessuno vede: il credito d’imposta finanzia un flop culturale da 600 milioni l’anno

C’è una categoria cinematografica di cui nessuno parla mai, né ai festival, né ai David, né tantomeno nei talk show che si indignano a corrente alternata: è il cinema invisibile. Quel cinema che esiste sulle carte, nelle rendicontazioni al ministero, nei bonifici pubblici, ma non esiste nella realtà, non si vede in sala, non arriva al pubblico, non lascia traccia.

Ecco allora un numero che racconta tutto: dal 2019 al 2023, in Italia sono state 1.354 le opere (film, documentari, animazioni) che hanno ricevuto il tax credit, cioè il credito d’imposta automatico per le produzioni cinematografiche. Bene. Di queste, 598 non sono mai uscite in sala. Tradotto: il 44 per cento. Quasi la metà. Lo ha segnalato il giornalista del Foglio Luciano Capone con un post semplice e sconvolgente. Uno di quei post che fanno più informazione di una conferenza stampa. E che andrebbe appeso sulla porta d’ingresso della direzione generale Cinema del ministero.

Perché quei 598 film che non ha visto nessuno non sono errori di percorso. Sono il prodotto di un sistema che finanzia la produzione senza mai chiedere nulla in cambio, se non fatture, documenti, carte bollate. Nessun obbligo di distribuzione. Nessuna verifica sull’impatto. Nessuna condizione legata alla fruizione.

E così, il tax credit – uno strumento nato per rafforzare l’industria culturale – si trasforma in un generoso incentivo alla sparizione. Soldi pubblici per film privati che non parlano a nessuno. A cui nessuno risponde. Che spesso finiscono direttamente nel buio digitale, quando non restano proprio nei cassetti. I numeri, d’altronde, parlano chiaro. Nel 2019, le opere non uscite in sala erano 39 su 122 (cioè il 32 per cento). Nel 2020, 53 su 191. Poi 83, poi 156. E infine, nel 2023, il crollo definitivo: 267 film su 321 non hanno mai visto un grande schermo. L’83 per cento. E’ un fallimento culturale, oltre che amministrativo.

Qualcuno dirà: ma il cinema è cambiato, oggi esiste lo streaming, i festival, le piattaforme on demand. Vero. Ma nemmeno lì queste opere emergono. Nessuno le cerca. Nessuno ne parla. Nessuno – tranne gli addetti ai lavori – saprebbe citare tre titoli tra quelli non distribuiti. E’ come se non esistessero, se non per chi ha incassato il credito.

Il problema non è il principio del tax credit. Il problema è come lo si usa. In Francia funziona, in Germania pure. In Italia, come spesso accade, si è trasformato in un meccanismo opaco e autoreferenziale, dove il finanziamento conta più del film, e dove la qualità dell’opera ha meno peso della correttezza formale della rendicontazione. E’ il trionfo del “l’importante è farlo, non farlo bene”. E soprattutto non farlo vedere. Nessuna colpa, per carità. Nessun dolo. Ma una gigantesca assenza di responsabilità culturale. Che in un sistema che costa 600 milioni l’anno allo stato – cifra vicina a quella destinata al reddito di cittadinanza in alcune annualità – comincia a diventare un po’ difficile da digerire.

A ben vedere, il tax credit italiano oggi è il sogno di ogni produttore cinico: non hai bisogno di vendere il film, né di promuoverlo, né di incontrare il pubblico. Devi solo fare il film secondo le regole del bando, e poi sei libero di ignorarlo per sempre. Tanto lo stato ha già pagato. Lo spettatore? Figurarsi. E così, ogni anno, mentre i cinema chiudono, mentre i festival si arrabattano con fondi risicati, mentre le sale d’essai si spopolano, centinaia di film vengono girati per non essere visti. Film che non generano pubblico, dibattito, emozione, fastidio. Nulla. Film-pagliativo. Film-pratica. Film-condono.

C’è una domanda da cui forse dovremmo ripartire: a cosa serve un film che nessuno vede? E ancora: può il cinema, che è linguaggio pubblico per eccellenza, essere finanziato con soldi pubblici senza alcuna prova pubblica della sua esistenza? Se ci fosse un obbligo di uscita in sala, anche minima. Se ci fosse un sistema di incentivi a posteriori legato al pubblico raggiunto. Se ci fosse un elenco pubblico e aggiornato di tutte le opere finanziate, con link, sinossi, distribuzione. Se ci fosse almeno l’idea che il pubblico conti, saremmo in un altro paese. E invece no. Siamo nel paese del tax credit come premio di consolazione. Del film invisibile che però “è servito per lavorare”. Della produzione come fine, non come mezzo. Della cultura che non disturba perché non esiste, e quindi non pone problemi, né politici né estetici.

Ma attenzione: il problema non sono i registi, né i produttori. Il problema è lo stato che paga senza mai chiedere di vedere. Lo stato che confonde la cultura con la procedura. Che finanzia l’assenza come se fosse presenza. Se vogliamo davvero difendere il cinema italiano, dobbiamo cominciare da qui: non da chi gira, ma da chi paga. Da chi dovrebbe avere il coraggio di dire: “Un film che non arriva al pubblico è un’occasione persa. E forse anche uno spreco”. Il pubblico ha diritto a vedere. E il cinema, se vuole essere cultura, ha il dovere di farsi vedere. Tutto il resto è solo contabilità. E neanche tanto trasparente.

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