Metodo Prevost

Piccoli segnali: le nomine al dicastero per i Religioni e a quello per la Promozione dell’Unità dei cristiani. Fino agli Stati Uniti, dove è stato promosso un ex collaboratore del cardinale Burke. La vera partita si deve ancora giocare, ma l’inizio indica che il Pontefice statunitense non vuole una Chiesa logorata dalla lotta tra fazioni

La partita delle nomine e del governo della curia romana si giocherà più avanti, benché non siano pochi i vescovi e i cardinali che si domandano – chissà se con mera curiosità o con accennata preoccupazione – cosa accadrà. Leone XIV si sta prendendo un lungo tempo per la riflessione, senza aver confermato in modo stabile, a oggi, nessuno dei prefetti di curia ereditati dal pontificato di Francesco. Segno che forse qualcosa da rivedere c’è e che gli interventi nel corso delle congregazioni generali del pre Conclave hanno lasciato qualche matassa che ora spetterà al Papa risolvere. Però qualcosa si può già dire guardando il poco che finora Robert Prevost ha deciso in materia di nomine. Il risultato è la messa in pratica di quanto va dicendo fin dalla sua prima apparizione alla Loggia delle Benedizioni: innanzitutto, recuperare e salvaguardare l’unità della Chiesa. L’ha ripetuto anche domenica scorsa, nell’omelia per la solennità dei santi Pietro e Paolo: prendendo spunto dai due apostoli, uomini così diversi tra loro, Leone XIV ha detto che “è importante imparare a vivere così la comunione, come unità nella diversità, perché la varietà dei doni, raccordata nella confessione dell’unica fede, contribuisca all’annuncio del Vangelo. Su questa strada siamo chiamati a camminare, proprio guardando a Pietro e Paolo, perché di tale fraternità abbiamo tutti bisogno. Ne ha bisogno la Chiesa, ne hanno bisogno le relazioni tra laici e presbiteri, tra i presbiteri e i vescovi, tra i vescovi e il Papa; così come ne hanno bisogno la vita pastorale, il dialogo ecumenico e il rapporto di amicizia che la Chiesa desidera intrattenere con il mondo. Impegniamoci a fare delle nostre diversità un laboratorio di unità e di comunione, di fraternità e di riconciliazione perché ciascuno nella Chiesa, con la propria storia personale, impari a camminare insieme agli altri”. Tradotto: si possono avere idee diverse, ci si può pure accapigliare, ma poi la meta deve essere la stessa.

Il Papa sta portando avanti un’opera di ricucitura, paziente e silenziosa, cercando di restringere il fossato che ha diviso – e sovente lacerato – orientamenti diversi divenuti col tempo fronti contrapposti. Qualche giorno fa, la variegata galassia ultraconservatrice ha tuonato contro le nomine fatte da Leone nel dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica: tra i membri designati dal Papa figuravano infatti – secondo siti e blog che hanno rapidamente accusato il Pontefice di “modernismo” e continuità “bergogliana” – i cardinali Arthur Roche, il prefetto del Culto divino e della disciplina dei sacramenti visto come l’incarnazione di tutta la legione demoniaca per via della sua opposizione alla messa vetus ordo e per aver costruito il motu proprio Traditionis custodes che a tale rito dà la caccia, il cardinale Cristóbal López Romero (l’arcivescovo di Rabat cui si imputa il parere favorevole a Fiducia supplicans con tanto di benedizione per le persone che formano una coppia omosessuale) e il brasiliano Jaime Spengler, lui pro rito amazzonico. Si tralasciava, nel pianto corale, di segnalare che insieme a loro il Papa aveva scelto (fra i cardinali) anche Pierbattista Pizzaballa e Giorgio Marengo, di certo non habitué di bagni purificatori nel Reno dopo aver mandato a memoria i princìpi del Synodale Weg tedesco.

E’ la classica tempesta in un bicchiere d’acqua: che i cardinali, fino agli ottant’anni, facciano parte di uno o più dicasteri curiali è la prassi e da sempre vi sono presenti personalità con orientamenti diversi. Certo, con l’eccezione del pontificato di Francesco, il quale fin da subito escluse alcuni prelati non inclini a sposare la sua idea di Chiesa di periferia (ad esempio, i cardinali Bagnasco e Burke dall’allora congregazione per i Vescovi). Tra l’altro, pochi giorni dopo, Leone XIV provvedeva a inserire nella plenaria del dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani due presuli conservatori: l’arcivescovo di Birmingham Bernard Longley e soprattutto il successore di George Pell a Sydney, il domenicano Anthony Colin Fisher. Ancora: nessuna rivoluzione, nessuna discontinuità. Semplicemente, un ritorno alla normalità che tende a unire e a mettere insieme voci non sempre sintonizzate sulla medesima frequenza, all’insegna della genuina parresia. Un altro segnale lo si è avuto martedì, quando il Papa ha nominato arcivescovo di Mobile, piccola diocesi dell’Alabama, mons. Mark Steven Rivituso, vescovo ausiliare di St. Louis, in Missouri. La particolarità è che mons. Rivituso fu nominato dall’allora arcivescovo di St.Louis, Raymond Leo Burke, vicario giudiziale diocesano, segno di fiducia e di stima. Il nuovo vescovo di Mobile ha un profilo conservatore ma moderato: qualche osservatore statunitense l’ha definito “un giovanpaolino”: magari non decisionista nel governo ma pragmatico, assiduo frequentatore del sacramento della confessione in cattedrale, disponibile e lontano da battaglie ideologiche, sia in un senso sia nell’altro. Uomo di unità, insomma. Ecco, dunque, la sintesi della linea prevostiana. Si vedrà se sarà confermata anche nelle scelte future e più rilevanti per il governo della Chiesa universale. Quelle che tanti frequentatori delle sacre stanze attendono con una certa ansia.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

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