Viaggio al termine della vita della scrittrice turca che amava Pavese

Il libro di Tezer Õzlü è un pellegrinaggio. Ci si perde un po’ per l’Europa, in treno, in autostop, prima di raggiungere la meta desiderata: i luoghi del grande autore piemontese

Sugli altopiani di Simav, città turca dove nacque nel 1943, Tezer Õzlü da bambina si univa ai battitori di grano. “Guardavo ammirata i chicchi giallissimi. Allora i campi di grano erano il mio mare. Le mie città, i miei viali”. Ma, fin da piccola, sogna di fuggire, perché “l’infanzia è prigionia, l’infanzia è esilio” scrive in Viaggio al termine della vita del 1984, meritoriamente tradotto adesso da Giulia Ansaldo per Crocetti (155 pagine, 17 euro).

Fugge dall’infanzia e dalla sua terra, dove a 18 anni tenta anche il suicidio, viene salvata e chiusa in manicomio. Fugge e compone poesie, fugge e scrive romanzi autobiografici diventando un’autrice di culto nel suo paese. Il Viaggio al termine della vita è un pellegrinaggio e la meta sono i luoghi di Cesare Pavese, che Tezer ama dentro un forte processo di identificazione. Ma prima di arrivare a destinazione si perde un po’ per l’Europa, in treno, in autostop. Ha un marito (il secondo) lasciato da qualche parte perché “ho sempre considerato e continuerò a considerare i matrimoni duraturi istituzioni sbagliate dell’ordine sociale” e del resto afferma: “Vivo per cambiare le relazioni umane”. Si dà, lungo la strada, al primo venuto che le va a genio e che perde la testa per lei. In tanti perdono la testa per questa quarantenne bella e strana, dai lunghi capelli castani al vento, che ha fatto l’attrice di teatro e la traduttrice dal tedesco e scrive libri dai titoli eloquenti, Le fredde notti dell’infanzia, Tracce di un suicidio, La vita fuori dal tempo…

Nel suo vagabondare per l’Europa, ascolta Leonard Cohen come Beethoven, si perde a Praga sulle tracce di un altro scrittore molto amato, Franz Kafka, scende a Trieste alla ricerca di Italo Svevo e ne incontra la figlia ultraottantenne Letizia, fa l’amore come antidoto alla vita, per perdersi meglio nel corpo di un uomo. E poi finalmente è nelle Langhe, a Santo Stefano Belbo, dove è nato Pavese di cui cita continuamente i Diari, e dove conosce il Nuto de La luna e i falò e sale incredula sulla Fiat 126 del grande amico dello scrittore, al secolo Giuseppe Scaglione, detto Pinolo, falegname e clarinettista. E poi, a Torino, eccola all’Hotel Roma, nella stanza dove Pavese si tolse la vita e dove il giovane portiere d’albergo che la apre per lei, si innamora perdutamente di questa donna malinconica che lo abbandonerà presto, come abbandona tutti per stabilirsi in Svizzera dove morirà a soli 43 anni per un tumore al seno, ma avendo fatto in tempo a sposarsi di nuovo con un artista. Il memoir però si ferma all’Hotel Roma con un’ennesima citazione pavesiana: E la vita non è solo il vento, solo il cielo, solo le foglie e solo niente?

Pavese è stato un grande amore delle generazioni nate fra gli anni ’40-‘50, l’autore più studiato con Italo Calvino al liceo, almeno in Italia. Ma se Calvino lasciava un po’ freddi, in Pavese tanti studenti trovavano riflesse le loro angosce e il loro senso di inadeguatezza. Mi sembrava che oggi non fosse più così, finché non mi sono imbattuta – proprio mentre leggevo Õzlü – nel trentaquattrenne francese Pierre Adrian autore di un Hotel Roma tradotto per Atlantide da Maria Sole Iommi (160 pagine, 24 euro), che è ancora una volta un pellegrinaggio: dal Piemonte alla Calabria, dove Pavese fu mandato al confino durante il fascismo, non per eroismo ma per un equivoco amoroso dei suoi. Qui però il viaggio è a due, un giovane uomo e una giovane donna che nell’amore per lo scrittore delle Langhe scoprono e rafforzano il loro rapporto sentimentale. La chiusa, meno nichilista, è ancora una volta lasciata al grande piemontese che così risponde alla domanda: perché si scrive, per la posterità? No. Per l’oggi, non per l’eterno. E mi sembra l’eredità più adatta ai nostri giorni.

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