Da riforme sociali a scelte in politica estera, l’opposizione progressista italiana si ispira a esperienze estere. Ma il riferimento iberico attraversa una fase critica, tra scandali, fragili alleanze e accuse di tradire i principi per restare al potere
La sinistra italiana, che cerca sempre di specchiarsi in qualche leader straniero (a seconda dei periodi americano, francese, inglese e a volte sudamericani), ora è lanciata sul modello spagnolo. Dalle leggi sul lavoro (salario minimo e riduzione dell’orario di lavoro) alla politica estera (sospendere gli accordi con Israele), fino alla contrarietà all’aumento delle spese militari al 5 per cento deciso dalla Nato, Elly Schlein non fa che emulare ed evocare le scelte di Pedro Sánchez. Ci sono delle buone ragioni. La prima è che non ci sono molte alternative, la Spagna è l’unico grande paese dell’Unione europea dove c’è un premier socialista (ci sarebbe anche la Danimarca, ma Mette Frederiksen ha una linea meloniana sull’immigrazione). La seconda è che, in effetti, Sánchez è un modello di successo e resilienza. Qualcuno ricorderà una foto scattata nel 2014 a Bologna tra i leader progressisti europei in camicia bianca: di Matteo Renzi sappiamo, Manuel Valls ha ruoli minori di governo all’ombra di Macron e gli altri due si fatica a ricordare chi fossero (l’olandese Diederik Samsom e il tedesco Achim Post). L’unico che resiste è Sánchez.
Ma sarebbe un errore, da parte del Pd, pensare che Pedro rappresenti il futuro. Sánchez è ormai un astro calante e, sebbene abbia già dimostrato più volte di saper rinascere, è nella fase più critica della sua carriera politica. Il governo e l’immagine del Partito socialista sono travolti da uno scandalo di corruzione che riguarda i due ultimi segretari organizzativi del Psoe, José Luis Ábalos e Santos Cerdán, due uomini di fiducia di Sánchez. La risicata “maggioranza Frankenstein”, formata sommando tutte le sigle estremiste, autonomiste e secessioniste di destra e di sinistra, perde continuamente pezzi. La sinistra radicale di Podemos ha lasciato la maggioranza, i catalani di Junts tengono sotto schiaffo il governo: hanno tolto il sostegno alla legge-bandiera della vicepremier Yolanda Díaz, anche lei molto apprezzata dal Pd, sulla riduzione dell’orario di lavoro. La Spagna è da due anni in esercizio provvisorio, perché il governo non ha una maggioranza per approvare una legge di Bilancio. Come ha detto egli stesso, Sánchez non convoca le elezioni anticipate perché altrimenti vincerebbe la ultraderecha: deve proteggere gli spagnoli dal loro voto. In questa logica di politica interna va vista la sua mossa sulla Nato: Sánchez assume una posizione di principio, ben sapendo che comunque non avrebbe i voti in Parlamento per aumentare le spese militari. Fa di necessità virtù. “Hacer de la necesidad virtud” è peraltro la formula che Sánchez ha utilizzato, dopo le elezioni del 23 luglio 2023, per giustificare l’accordo con gli indipendentisti catalani: sostegno al governo in cambio dell’amnistia per il latitante Carles Puigdemont e i soci coinvolti nel proces.
Ma nella situazione attuale, quella di Sánchez è più lotta per la sopravvivenza che un modello di governo. E perde sostegno anche nel proprio campo. Felipe González, storico premier socialista e padre della Costituzione spagnola, in un’intervista ha dichiarato che per la prima volta non voterebbe il Psoe, il partito che ha guidato per decenni, e che Sánchez dovrebbe dimettersi: “Non ha più vita politica, non ha più nessun potere” perché “tutto il potere” è in mano al ricatto dei nazionalisti baschi e catalani. “La necessità assolutamente personale di aggrapparsi al potere la capisco – ha detto González rievocando la formula di Sánchez – ma dov’è la virtù?”.