I mercati si fidano di Israele

Negli ultimi giorni l’indice della Borsa di Tel Aviv ha raggiunto i suoi massimi storici, nonostante i 20 miliardi spesi in difesa solo a giugno. “I costi più ingenti saranno quelli per la ricostruzione – dice l’analista Elise Brezis eppure persino queste spese saranno un ottimo investimento in termini di lungo periodo”

Tel Aviv. Supponendo che il cessate il fuoco siglato ieri tra Tel Aviv e Teheran regga, il conflitto tra Israele e la Repubblica islamica, cominciato il 13 giugno, sarebbe durato in totale 12 giorni: una “guerra lampo” come quella dei Sei Giorni del 1967 che ha implicato costi enormi, soprattutto in termini di vite umane. Tuttavia, ciò che ha colpito fin dalle prime ore di questa complessa operazione militare e di intelligence, sono stati anche alcuni considerevoli benefici, specie se si guarda l’indice della Borsa di Tel Aviv, che negli ultimi giorni – prima ancora che ieri fosse annunciato il cessate il fuoco – ha raggiunto i suoi massimi storici, crescendo dell’oltre 10 per cento. Elise Brezis, docente di Economia presso l’Università di Tel Aviv e direttrice dell’Azrieli Center for Economic Policy, dice al Foglio: “Gli investitori internazionali hanno deciso di scommettere su Israele, non solo sul breve periodo, certi di una vittoria dell’Idf, ma anche sul lungo, puntando su una stabilizzazione di tutta la regione mediorientale, una volta eliminato il regime di Teheran”.

L’analista riconosce come il mese di giugno abbia avuto costi enormi per la popolazione israeliana, sia diretti – si sono calcolati circa 20 miliardi di dollari solo per la difesa – sia indiretti, ovvero le spese, ancora difficilmente calcolabili, di costi legati alla sanità e a tutte le attività che sono state sospese a causa dell’emergenza bellica. Tuttavia sottolinea che, anche lavorando in condizioni impensabili e dai bunker, in questi 12 giorni Israele non si è mai fermata un secondo, con il 98 per cento delle aziende che ha continuato a lavorare: “Le spese più ingenti saranno quelle per la ricostruzione – dice Brezis – Il paese è stato molto colpito dal nord al sud: da Haifa a Beer Sheva, con interi quartieri di Tel Aviv ridotti in macerie. Una delle voci più importanti da calcolare sarà quella legata ai costi di ricostruzione, stimati attorno ai nove milardi di dollari. Eppure persino queste spese saranno un ottimo investimento in termini di lungo periodo, non solo perché saremo costretti a trovare migliori tecnologie, in grado di sopportare potenziali attacchi da altri potenziali missili balistici, ma soprattutto perché queste tecnologie potranno essere poi esportate all’estero. Come del resto è già avvenuto subito a ridosso del 7 ottobre, quando molti stati occidentali si sono rivolti a Israele per acquistare tecnologie specializzate nell’intercettazione antimissili, nella cyber security, nel sistema di sicurezza dei dati tramite cloud e nell’IA, tutte tecnologie di cui Israele è leader su scala mondiale. Inoltre – conclude – qualora la pacificazione della regione proposta dall’Amministrazione Trump fin dal suo primo mandato continui come previsto, si aprono altri scenari un tempo impensabili, tra cui l’apertura ad altri mercati all’interno della stessa regione. Se proseguiranno gli Accordi di Abramo, uno degli interlocutori privilegiati sarà l’Arabia Saudita, ma potenzialmente anche la Siria e il Libano, vicini di casa che potrebbero diventare nostri partner importanti. Credo che su questo, soprattutto, abbiano scommesso la maggior parte degli investitori internazionali”.

Anche Nissim Douek, uno dei più autorevoli commentatori strategici di Israele e fondatore di Unik Public Image, una delle principali agenzie di comunicazione israeliane, ha sottolineato, nel successo di questa operazione, anche l’aspetto cruciale della componente comunicativa, che potrebbe aver spinto i potenziali investimenti soprattutto nel capitale umano, che è il più grande capitale israeliano: “Dal 2000 al 2020 l’economia israeliana non ha fatto che crescere in modo esponenziale, ed è riuscita a sopravvivere persino agli ultimi cinque anni di crisi il tra Covid, il movimento di protesta contro la riforma giudiziaria, l’attacco di Hamas del 7 ottobre e persino il contrattacco da parte di Teheran. Questa resilienza, tipica di Israele ha probabilmente spinto i venture capitalist a continuare a investire su Tel Aviv. Dal punto di vista dell’osservatore esterno, se siamo riusciti a sopravvivere alle incredibili sfide di questi ultimi cinque anni, dopo aver eliminato prima i tentacoli e ora la testa del regime iraniano, si prevede un futuro in cui Israele non farà che confermare il suo ruolo di Startup Nation, con enormi benefici sia per la regione sia su scala globale”.

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