Dopo l’attacco americano all’impianto nucleare di Fordo, un pensatore conservatore e uno progressista si confrontano su cosa significhi oggi difendere l’ordine internazionale: deterrenza o escalation? Prevenzione o unilateralismo?
Conservatore: Lo chiamano attacco. Io lo chiamerei atto dovuto. Gli Stati Uniti hanno colpito un impianto nucleare iraniano, a Fordo, che era già da anni oggetto di violazioni da parte del regime. Non è un caso se si trova scavato nella roccia, protetto da contraerea e pensato per ospitare centrifughe ad alta capacità. E non è un caso se quel sito aveva ripreso a funzionare intensamente proprio dopo l’ultimo annuncio di Teheran sul superamento del limite di arricchimento dell’uranio. Dire che si tratta di un’aggressione significa ignorare la realtà: l’Iran di oggi è una minaccia sistemica all’ordine internazionale, così come lo era nel 2018 quando Trump uscì dall’accordo sul nucleare, e lo era nel 2020 quando gli Stati Uniti eliminarono Qassem Suleimani. In quel caso tutti parlavano di terza guerra mondiale. Invece è finito il ciclo di attentati contro le truppe americane in Iraq.
Progressista: Non nego che il regime iraniano sia un pericolo. Ma usare la forza, unilateralmente, senza passare da un mandato internazionale, alimenta esattamente quella logica di confronto permanente che rende più instabile il medio oriente. L’uccisione di Suleimani è stata un atto di forza, sì, ma non ha reso più sicura la regione. E lo stesso vale per questo attacco. Anzi: rischia di ricompattare il fronte più oltranzista dentro il regime, di soffocare le spinte interne di dissenso, di trascinare il Libano in un nuovo ciclo di scontri, e magari di offrire un pretesto alla Russia per legittimare operazioni simili. E poi, se vale la regola dell’attacco preventivo, perché non applicarla anche alla Corea del nord? Perché non alla Cina su Taiwan? Non possiamo vivere in un mondo dove la potenza di fuoco sostituisce la diplomazia.
Conservatore: La diplomazia è uno strumento, non un fine. L’Iran ha violato gli accordi. Ha sostenuto attacchi diretti contro Israele, ha armato gli houthi in Yemen, ha permesso che le sue milizie colpissero navi nel Golfo. Un paese così non può essere trattato alla pari. Deve sapere che ci sono conseguenze. Lo ha detto anche Biden, che pure è stato cauto finora: ci sono linee rosse. E un impianto nucleare attivo, che punta a costruire la Bomba, è una linea rossa. Nessun diritto internazionale vieta un’azione difensiva mirata contro una minaccia imminente. La Carta dell’Onu lo ammette. E quanto alla Corea del nord, la differenza è semplice: ha già la Bomba. L’Iran non ancora. Il tempo gioca a favore della deterrenza solo se intervieni prima che sia troppo tardi. Agire dopo significa inseguire. E quando si parla di nucleare, inseguire equivale a perdere.
Progressista: Ma chi decide quando è troppo tardi? Gli Stati Uniti? Israele? La Nato? E gli altri? La comunità internazionale non può essere un pubblico pagante davanti a uno show muscolare a cui non partecipa. Lo sappiamo tutti che il multilateralismo ha dei limiti, ma resta l’unico modo per non scivolare in una giungla globale. La guerra preventiva, soprattutto se legittimata unilateralmente, diventa un precedente. E i precedenti si pagano. Lo abbiamo visto con l’Iraq. Lo abbiamo visto con la Libia. Lo vedremo, temo, se la Cina decidesse di fare lo stesso ragionamento su Taiwan: minaccia percepita, attacco preventivo. E’ questo il mondo che vogliamo? Dove ogni potenza interpreta la minaccia a modo suo e agisce in solitaria, con effetti potenzialmente devastanti?
Conservatore: Il mondo che abbiamo è quello in cui alcuni regimi si sentono intoccabili proprio perché confidano nella nostra esitazione. Non è la forza a generare il caos, è l’assenza di risposta. La Corea del nord ha potuto proliferare perché nessuno ha fatto nulla. L’Iran punta allo stesso modello: instabilità regionale, guerra per procura, ricatto nucleare. Non c’è bisogno di invadere, ma c’è bisogno di far capire che certe soglie non si superano impunemente. L’azione americana non ha provocato vittime civili. Ha colpito un obiettivo preciso. E ha lanciato un messaggio chiaro: non tolleriamo che un regime teocratico e antisemita si doti della bomba. Ogni ritardo, ogni cautela, ogni fiducia mal riposta nel dialogo può tradursi in una minaccia irreversibile.
Progressista: Ma il prezzo qual è? Un’altra escalation? Un attacco a Haifa? A Dubai? Una nuova ondata di rifugiati? E se tra sei mesi scoprissimo che l’intelligence si era sbagliata? Che quei dati non bastavano per dire che l’Iran era a un passo dalla bomba? Il problema, caro amico, è che la forza spesso crea più problemi di quanti ne risolva. E anche se l’intervento fosse giustificabile sul piano tattico, resta una ferita alla legalità internazionale. Una ferita che altri useranno come scusa. Forse era necessario, ma non è stato giusto. O forse era giusto, ma non è stato utile. In ogni caso, è una sconfitta della politica. E quando la politica si ritira, la guerra avanza. Ci vuole più coraggio a insistere con i negoziati che a premere un bottone. Perché il negoziato ti espone al fallimento, mentre la forza illude di aver già vinto.
Conservatore: Vero, la forza non è mai una garanzia di vittoria. Ma nemmeno l’attesa lo è. Se aspettiamo che l’Iran sviluppi un’arma nucleare, allora sarà davvero troppo tardi. Nessuno vuole una guerra, ma nessuno può ignorare che ci sono momenti in cui l’inazione è più pericolosa dell’azione. Biden non è un interventista per natura. E se ha autorizzato questo attacco, è perché le opzioni diplomatiche erano esaurite o aggirate. Chi parla solo di diplomazia dimentica che la diplomazia, per funzionare, ha bisogno di leva. E quella leva, oggi, si chiama deterrenza armata.
Progressista: Ma allora accettiamo che la pace sia solo un intervallo tra due minacce? Che la stabilità derivi dalla paura, non dalla cooperazione? Che il mondo sia governato non dal diritto ma dal potere? La vera sfida è costruire istituzioni che funzionino, non bruciarle ogni volta che ci sembrano lente. Certo, l’Iran va contenuto. Ma contenere non significa bombardare. Significa isolare, negoziare, persuadere, se serve anche punire con sanzioni severe. L’azione americana può anche aver fermato temporaneamente l’impianto di Fordo. Ma ha riacceso qualcosa di più pericoloso: l’idea che il mondo si governi meglio con i missili che con i trattati.