L’Iran e il sentiero stretto della minaccia di chiudere Hormuz

Il blocco del flusso di petrolio è un’arma potente per Teheran, ma perderebbe gran parte del suo valore se attuato: il secolare ricatto degli Ayatollah fa meno paura di cinquant’anni fa

Non è impossibile che l’Iran decida di tentare il blocco dello Stretto di Hormuz, da cui passa il 20% del petrolio e del gas naturale liquefatto (Gnl) scambiati a livello globale. Ma è improbabile che accada. Per ora, i mercati sembrano non credere a tale eventualità: le quotazioni del Brent hanno avuto al momento solo un leggero rialzo – attorno al 2% – attestandosi attorno ai 75 dollari, dopo aver toccato un massimo di poco superiore agli 80 dollari. È il record degli ultimi mesi, ma resta molto inferiore ai livelli di appena un anno fa (la differenza è superiore ai dieci dollari). Un altro indizio viene dalle assicurazioni: sebbene il costo delle polizze sia cresciuto, le compagnie continuano a garantire copertura alle navi, il che suggerisce che ritengono il rischio ancora gestibile.

Del resto, la facilità con cui il Parlamento dell’Iran ha chiesto la chiusura dello Stretto sembra sottovalutarne le difficoltà tecniche, militari e politiche. Intercettare decine di navi sarebbe una missione nelle capacità dei Pasdaran, ad esempio minando i fondali, ma nient’affatto semplice che richiederebbe, tra l’altro, l’occupazione delle acque dell’Oman. Il Sultanato non avrebbe alternativa se non invocare l’intervento del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), l’alleanza capeggiata dall’Arabia Saudita, scatenando una guerra di tutti contro Teheran, che nessuno desidera, ma che l’Iran meno di tutti può permettersi.

Teheran potrebbe ostacolare il passaggio dallo Stretto, ma difficilmente riuscirebbe a mantenere questa situazione per più di qualche giorno. Perché, oltre ad attirare un intervento degli Stati Uniti, pesterebbe i piedi soprattutto agli altri paesi del Golfo (in primis l’Arabia Saudita, da cui proviene circa il 40% dei prodotti in transito) e alle nazioni asiatiche (in primis la Cina, a cui è destinato circa il 40% del flusso). Il greggio proviene infatti dai maggiori produttori del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Kuwait, Qatar e lo stesso Iran) mentre gran parte del Gnl è di origine qatarina; in entrambi i casi, le principali destinazioni sono i paesi asiatici, che congiuntamente ne importano oltre l’80% (solo Cina e India rappresentano oltre il 50%).

Diverso è il caso del Gnl: l’Europa, che ne riceve circa il 15%, ne avrebbe un danno diretto: i più esposti sono l’Italia e il Belgio. È proprio sul mercato del gas, meno flessibile, che gli effetti sarebbero maggiori. L’Oxford Institute for Energy Studies ha mostrato che la chiusura prolungata dello stretto avrebbe un effetto comparabile a quello della crisi del 2022 (invasione dell’Ucraina), con una riduzione del 15% dell’offerta globale di Gnl. Tenendo conto dei possibili aumenti produttivi in altre parti del mondo, la perdita sarebbe di circa 115 miliardi di metri cubi (86 considerando che potrebbero essere parzialmente compensati da incrementi produttivi altrove). Per confronto, la chiusura dei flussi dalla Russia portò a una riduzione dell’offerta di circa 135 miliardi di metri cubi. La differenza sarebbe che, mentre in quest’ultimo caso l’impatto riguardò prevalentemente l’Europa; in questo caso andrebbe a scapito soprattutto di Pechino.

Oltretutto, l’Iran danneggerebbe se stesso: il petrolio è la sua principale fonte di reddito. Teheran produce circa 4 milioni di barili al giorno, di cui circa il 90% prende la via della Cina (pressoché unico cliente dopo le sanzioni internazionali al regime degli ayatollah). È illogico pensare che, se Teheran impedisse il passaggio delle navi dallo Stretto, gli altri lascerebbero transitare indisturbate le sue. Ma in tal caso, l’Iran perderebbe in una sola volta il suo alleato più potente e la sua unica fonte di finanziamento estero. Sarebbe una mossa disperata: “Un suicidio”, l’ha definito più esplicitamente il vicepresidente degli Stati Uniti J. D. Vance.

C’è un elemento ulteriore: il blocco dello Stretto di Hormuz è un ricatto potente nelle mani degli ayatollah, ma – una volta messa in pratica – perderebbe gran parte del suo valore. Non è un caso che l’Iran minacci la chiusura dello Stretto da almeno cinquant’anni e non l’abbia mai fatto (se non, al limite, alimentando le tensioni con le cosiddette “guerre delle petroliere”). Per giunta, negli anni i paesi del Golfo hanno cercato di minimizzare il rischio geopolitico della “strozzatura” di Hormuz. L’Arabia Saudita ha un oleodotto Est-Ovest, con una capacità di 5-7 milioni di barili al giorno, che collega i giacimenti del Golfo al Mar Rosso, in modo da aggirare un eventuale blocco. Anche gli Emirati Arabi hanno un oleodotto da 1,5 milioni di barili che collega i giacimenti al terminal di Fujairah, oltre lo Stretto.

Lo spettro delle crisi petrolifere degli anni Settanta segna ancora il nostro immaginario, ma il mondo è cambiato. Il petrolio è meno rilevante nell’economia mondiale rispetto ad allora e il Medio oriente è meno rilevante rispetto allo scenario petrolifero. Nel 1970, per produrre un’unità di pil venivano consumate 0,12 tonnellate equivalenti di petrolio, oggi solo 0,05. Ma nel mercato mondiale sono anche cambiati gli attori e le loro parti in commedia. Gli Stati Uniti, che erano il più grande importatore di petrolio, grazie alla shale revolution sono diventati il maggiore produttore ed esportatore mondiale (ora appena il 3% del flusso che passa da Hormuz va negli Usa). Al contrario, se l’Unione Sovietica alleata dei paesi dell’Opec che avevano imposto l’embargo in seguito alla guerra del Kippur beneficiava del boom dei prezzi del petrolio essendo un grande produttore ed esportatore, ora la potenza che si contrappone agli Stati Uniti, la Cina, è il più grande importatore mondiale di petrolio.


Infine, anche i mercati si sono sviluppati e, attraverso future e derivati, consentono ai partecipanti al mercato di procurarsi delle coperture.

Ciò non significa che una crisi non sia possibile o che il tentativo di bloccare Hormuz non avrebbe conseguenze. Significa che il mondo è cambiato e che, per usare un termine orrido ma alla moda, viviamo in un mondo certamente più complesso, ma anche più resiliente. Perciò la secolare minaccia di Teheran di chiudere lo Stretto fa meno paura di cinquant’anni fa.

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