Nostra signora della moda sexy

Secondo l’ex modella Carine Roitfeld da tempo nella moda non c’è più emozione, solo troppe sfilate e uno sfruttamento coscienzioso dei designer. Risultato: la gente non sa più che cosa vuole, e finisce per non volere niente. Lei, però, continua a produrre show e giornali. Insomma, ci crede ancora: “Bisogna solo essere un po’ meno capricciosi”

Carine Roitfeld cerca scintille dove gli altri vedono solo business. In un settore dove ormai regna l’algoritmo, lei spiazza con l’inaspettato. È una G.O.A.T. (per usare un acronimo sportivo che, se continuerete a leggere questa intervista, ha un senso) senza clamore, ma con profondità. Ex direttrice di “Vogue Paris”, dal 2001 al 2011, ora anima della fashion bible CR, le sue iniziali, che ha fondato nel 2012, Carine Roitfeld è anche Officière de l’Ordre des Arts et des Lettres. Nata a Parigi nel 1954, cresciuta nel 16mo arrondissement, figlia di un celebre produttore cinematografico francese di origine ucraina, Jacques Roitfeld, incarna quel genere di eleganza che una certa classe alto-borghese francese, la sua, ama sovvertire, giocando con le perversioni, vedere alla voce Pauline Réage. Musa di Tom Ford, ha definito con lui la celebre corrente “porno chic” della fine degli Anni Novanta, quell’estetica sensuale, morbosa e lasciva, che è ormai impressa nell’immaginario collettivo. “Purtroppo, in questi anni la moda sorprende sempre meno”, mi racconta. “Ci lavoro da oltre quattro decenni, ho visto tantissime sfilate e conosciuto altrettanti stilisti, per questo mi sento fortunata dato che oggi molti designer e giornalisti non hanno le stesse opportunità. Nel settore ci sono stati cambiamenti, sia positivi sia negativi. Per esempio, dal punto di vista creativo settembre sarà interessante per una serie di debutti molto attesi: Jonathan Anderson da Dior, Matthieu Blazy da Chanel, Proenza Schouler da Loewe, Louise Trotter da Bottega Veneta, Glenn Martens da Margiela, Demna da Gucci. Un rimescolamento che potrebbe regalare una delle stagioni più interessanti degli ultimi anni dato che da tempo non c’è più emozione, ma soltanto troppe sfilate. Siamo tutti un po’ blasé (che è termina davvero intraducibile, dovete prenderlo per quello che è, ndr), in attesa di quella che ci faccia dimenticare il resto”.

Roitfeld vorrebbe infondere speranza, ben conscia che i numeri dicono altro: la moda sta attraversando infatti una profonda crisi che spinge i brand a compiere scelte estreme, nella speranza di ottenere risposte immediate. Per esempio, nel momento in cui scrivo pare che a settembre Gucci opterà per la formula “see now buy now”, sostituendo la sfilata con una formula meno classica, per ottenere risposte quasi istantanee sul gradimento della collezione. Tipo: mi fido di Demna, ma non troppo. “Quando arrivò da Balenciaga, fu una sorpresa; che piacesse o meno, era fort”, spiega. “Vorrei tornare a esclamare “wow”, a stupirmi per qualcosa che mi faccia innamorare di nuovo della moda. Ma penso anche che oggi i designer siano sottoposti a un’enorme pressione. Devono gestire troppe cose: creare molte collezioni, sviluppare borse che devono vendere come noccioline e tanto altro, con uno sforzo sovrumano. Nessuno riesce più a capire che cosa la gente si aspetti o voglia. Però sappiamo che i designer di oggi non sono liberi come una volta; ma sono creativi, e la loro visione artistica, con questi ritmi e in questo modo, viene compromessa”. Ricorda i tempi in cui Helmut Lang cambiava il corso della moda sfilando a Parigi in una sala bianca senza decorazione, semplicissima, al 17 di rue Commines, senza effetti speciali, ma con l’emozione di una visione stilistica: “Sarebbe bello che Jonathan da Dior ricominciasse da qualcosa del genere”, riflette. Nella situazione attuale sarebbe un gesto rivoluzionario, fatto da un designer alla guida di uno dei brand più importanti del mondo: rallentare, tornare a far sognare coi vestiti e non con proclami e trovatine degli uffici marketing che hanno spostato gli equilibri troppo verso la finanza a discapito del genio. “Oggi il prodotto e l’aspetto economico sono sempre più importanti, ma sono temi difficili e non molti li affrontano bene, anche perché ci sono tanti clienti, e troppo diversi”, spiega. “Quando ho iniziato, nella moda c’erano molte meno sfilate. La prima alla quale lavorai fu Gucci, con Tom Ford direttore creativo e Domenico De Sole presidente e amministratore delegato. Erano in perfetta sintonia, perché l’avvocato si fidava al cento per cento della visione di Tom. Non guardava i vestiti, nemmeno il giorno della sfilata; non giudicava ed era lì per sostenerlo. Lo stesso valeva con Yves Saint Laurent e Pierre Bergé. Non è un rapporto di coppia, ma quello tra lo stilista e il ceo un po’ ci si deve avvicinare”. È la stessa attitudine che Roitfeld riconosce per esempio a Pietro Beccari sia oggi da Louis Vuitton con Pharrell Williams sia da Fendi ai tempi di Karl Lagerfeld: positività, energia, fiducia. “La moda è ancora bellissima, ma è in un momento difficile. Non mi occupo di business, ma è evidente. E poi per chi lavora nei grandi brand sarebbe costruttivo essere un po’ meno capricciosi” aggiunge. “Perché dobbiamo adattarci ai cambiamenti. Prima non mi fermavo mai e avevo tutti i comfort, ma ora è diverso, ne prendo atto e non mi rattristo. Però osservo che nonostante tutto alcune persone siano ancora attaccate a quel tipo di vita e lo considero molto démodé, come anche la mancanza di supporto tra gli stilisti. Ricordo che Lagerfeld mandava sempre fiori prima della sfilata per augurare buona fortuna a chi ammirava, un gesto gentile e di rispetto. In qualche modo, ritrovo questa attitudine sympathique, mi piace questa parola, in Pharrell che infatti è molto amato sia in Vuitton sia a Parigi in generale”. La rivoluzione digitale ha aperto autostrade accelerando le possibilità comunicative, ma ha anche confuso insider e consumatori. La rincorsa continua alla novità, riflette Roitfeld, ha spesso tolto attenzione dalla qualità, mentre i professionisti sono stati barattati per visualizzazioni e like, scelte che spesso hanno fatto perdere consistenza al sistema con l’illusione che fosse importante per il loro business, idea con la quale lei non si ritrova. Così le chiedo quale sia la ricetta per restare rilevanti oggi. “Sai, sono sempre stata fearless, senza paura. Forse sono l’ultima ormai”, ironizza.

“Non temo di osare, pur rispettando le persone. Non voglio essere una cattiva maestra provocando con messaggi sbagliati. Ma d’altro canto, nella moda c’è spazio per raccontare cose che non sono mai state dette con mezzi inediti e voglio mantenere questa libertà, per questo ho creato CR”. Oggi i brand spingono a fotografare solo il total look togliendo spazio al gioco estetico, smontando il punto di vista editoriale. Per Roitfeld si tratta di una strada sbagliata perché appiattisce un sistema già abbastanza omologato: “Quando curavo le campagne di Chanel, Lagerfeld mi chiedeva sempre un approccio innovativo: “Mi sorprenda, Madame Roitfeld” , diceva. “Non voglio fotografare il total look della sfilata, l’ho già visto e mi ha annoiato, voglio qualcosa di fresco e nuovo’. Così mi spingeva a cambiarlo, perfino per le pubblicità. Questo oggi è impensabile, sia perché in giro non ci sono molti Lagerfeld, sia perché la gente non osa”.

E infatti, spiega, ormai nell’editoria si innesca sempre più spesso un braccio di ferro con i brand: da un lato vi è la volontà di spingere la vendita del prodotto, dall’altro la testata insiste per la libertà interpretativa. In realtà, osserva, nella maggioranza dei casi la scelta editoriale suscita molte più emozioni e desideri della semplice messa in pagina dei vestiti, con soddisfazione di tutti. Fare giornali è diventato molto più complesso, così le chiedo come mai prima le donne potenti della moda un tempo erano a capo di testate mentre oggi sono perlopiù indipendenti. “Preferiscono collaborare con tante riviste e non dirigerle perché così ho più libertà di azione e realizzazione. Ci sono così tanti titoli di nicchia, come “CR”, dove posso esprimermi meglio. Ai tempi in cui ero a “Vogue Paris” era diverso, era il momento perfetto: avevo autonomia perché anche finanziariamente la situazione era migliore”. Così il potere delle donne della moda di oggi si è spostato fuori dalle redazioni. Carine riflette sull’ottimo lavoro che Lotta Volkova ha fatto con Demna, dapprima con Vetements, quindi riscrivendo il mondo di Balenciaga e più recentemente di Miu Miu.

Ma fa notare che non sempre funziona; se il sodalizio non è sincero e duraturo, non è altro che un lavoro ben pagato, ma poco rilevante. “Oggi quando assisti a una sfilata a volte sembra più importante il nome dello stylist di quello del designer, e un po’ mi rattrista. Ho lavorato con Tom Ford e penso che la parola consulenza” in quel caso fosse fuorviante; era qualcosa di più profondo. È molto difficile dare tante idee fresche in poco tempo, quindi è quasi impossibile farlo bene per diverse sfilate nella stessa stagione, poi lo trovo anche poco rispettoso per i designer e i brand”, sottolinea. Questo potere, aggiunge, ha fatto anche nascere nuove professioni: “Oggi c’è l’ascesa della figura della celebrity stylist, potente e pagata. Se un brand ti veste per una sfilata o un evento finisci a ripetizione su ogni social media, ma per me non è entusiasmante, perché le vere star dovrebbero avere un’estetica propria, non stylist” che propongono look programmati per tutte le ore del giorno, tutti dimenticabili. “Devo ammettere che non provo più emozioni neanche nel vedere la gente vestita alle sfilate, da osservatrice attenta sono molto più stimolata da ciò che accade al di fuori del fashion system”, racconta. “L’ultima volta che fui sorpresa a uno show fu quando Virgil Abloh disegnò Vuitton: sfilata, concetto, atmosfera, persone erano diversi. Aveva portato una comunità che prima di lui non aveva accesso al nostro mondo chiuso. Lì ho capito che stava accadendo qualcosa di mai visto”. Da qualche tempo, Roitfeld ha lanciato “Players”, magazine che incrocia moda e sport, un’idea del figlio Vladimir. “Penso sia arrivato al momento giusto, né in anticipo né in ritardo. È eccitante perché gli atleti sono ancora entusiasti della moda e di essere parte dei giornali. Non sono una sportiva e scelgo capi tecnici solo per l’estetica. Ricordo che per la copertina di “Vogue Paris” del novembre 2004 scelsi una modella che odiava lo sport, notoriamente Kate Moss” ironizza. “La scattò Mario Testino con atleti veri, lei indossava un top Nike con pelliccia Gucci. Per me era semplicemente cool, ma per l’azienda il mix cambiò per sempre la loro visione strategica”. Fu un’altra pagina nella storia della moda.

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