Poche ore dopo aver annunciato la nomina di Luca de Meo, ceo di Renault, a numero uno del gruppo Kering, l’erede del colosso del lusso in crisi di velocità ha inoltrato a dipendenti e azionisti alcune osservazioni. Queste
Dicono in Kering che François Henri Pinault e Luca de Meo, nuovo ceo del gruppo, si siano piaciuti subito, al primo incontro. Nessuno sa se abbiano parlato di automobili, alle quali, peraltro, il manager milanese cresciuto nel team di Sergio Marchionne, poi artefice del rilancio di Seat e dell’eccezionale recupero di Renault, ha dedicato un “Dictionnaire amoureux” un annetto fa, edito da Plon.
Il dizionario è stato tradotto anche in spagnolo, ma ne trovate la pubblicità principalmente su Amazon.fr con la seguente recensione: “Dalla A di Abarth alla Z di Generazione Z, passando dalla R di robot alla S di Senza Patente, Luca de Meo, pdg di Renault, racconta l’incredibile storia dell’automobile, un argomento popolare che suscita grandi passioni”. Mancando la moda ultimamente di entrambi questi valori, la popolarità e la passione, è relativamente facile spiegarsi perché i Pinault, messi nella necessità di trovarsi un nuovo amministratore delegato perché l’erede del fondatore, François Henri, dopo vent’anni alla guida ne aveva dichiaratamente abbastanza, e i due deputy ceo, Francesca Bellettini e Jean Marc Duplaix, evidentemente non hanno dato in questo anno e mezzo la prova necessaria per togliere dal proprio titolo la deminutio “deputy”, abbiano deciso di guardare fuori dal solito circolo, out of the box come dicono quelli che sanno l’inglese, finendo per ingaggiare questo manager di gradevole aspetto, cosa che nel settore offre sempre una chance in più, e che sarà stato certamente innamorato dell’auto, ma non abbastanza da rifiutare la carica di vertice nella gestione di alcuni fra i marchi più favolosi del mondo, in crisi di velocità come Gucci ma anche provvisti di buona tenuta di strada come Balenciaga, Bottega Veneta e Pomellato: se il gruppo ha chiuso il 2024 con ricavi a 17,2 miliardi di euro, a meno 12 per cento, e un utile di 1,13 miliardi, in decremento del 62 per cento, il maggiore imputato dell’imponente calo è senza dubbio il marchio fiorentino.
A fine 2024 Kering aveva debiti per 10,5 miliardi di euro e secondo fonti Reuters rischia il terzo declassamento del rating nel giro di tre anni. In Francia, la notizia del cambio di corsia di de Meo non ha lasciato indifferente nessuno, soprattutto perché Renault, con lo Stato francese al 15 per cento del capitale, è un simbolo politico, e De Meo lascia mentre il piano strategico “Futurama” è in fase di definizione. La sua uscita, in un’Europa automobilistica in crisi, con l’elettrico al 15 per cento e molte pressioni causate dal rafforzamento della Cina e dai dazi Usa, rischia di rallentare il distacco da Nissan e il rilancio delle auto economiche. La notizia dell’arrivo di de Meo è iniziata a circolare nella serata di domenica, mentre i milanesi erano raccolti al Teatro alla Scala ad ascoltare Kirill Petrenko che dirigeva una eccezionale Prima Sinfonia di Brahms.
La mattina dopo, alla conferma, il titolo Renault è crollato dell’8,69 per cento: il gruppo automobilistico, oggi certamente più solido rispetto al 2020, continua però ad aver bisogno di un leader che ne rafforzi il processo di innovazione. Il che, disgraziatamente, è proprio quello di cui ha bisogno anche Kering: non solo di sistemare i conti, vendendo le attività non più utili e fruttifere e mettendo pesantemente mano anche al personale, tutte attività che un professionista estraneo alle infinite relazioni incrociate interne al settore può compiere certamente senza timori, ma anche ridare di slancio e visione al gruppo.
Non è la prima volta che i Pinault scelgono un manager estraneo alla moda; le stesse reazioni che ora accompagnano la nomina di de Meo si produssero nel 2004 quando Robert Polet, capo della divisione gelati e frozen foods di Unilever, nato e cresciuto in Asia, venne chiamato a sostituire Domenico De Sole al vertice di Gucci. Il “gelataio di Kuala Lumpur”, come venne inevitabilmente subito ribattezzato, in realtà fece molto bene per quasi un decennio e fino all’arrivo di Patrizio Di Marco. E un percorso molto simile, sebbene partendo da posizioni meno rilevanti, è stato quello di Pietro Beccari, attuale ceo di Louis Vuitton, entrato nel 2006 nel gruppo Lvmh dalla divisione haircare del gruppo Henkel come vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione, prima di diventare presidente e ceo di Fendi nel 2012 e di Christian Dior Couture nel 2018. Evidentemente, François Henri Pinault deve aver pensato che replicare quei successi sia possibile, anche in un contesto di mercato completamente diverso.
Lo ha anche scritto, in una nota diffusa fra i collaboratori che, pur evidenziando l’ottimo lavoro fatto dai due “deputy”, che hanno “implementato cambi significativi, rafforzando la nostra capacità di azione ad ogni livello” ha messo in chiaro come si sia reso necessario separare le due funzioni di presidente e ceo, “identificando i potenziali candidati” per quest’ultima funzione, affidando il compito non a una ma a ben due società di ricerca (una di queste è stata Jouve). “Cercavamo un manager di grande esperienza”, anche “internazionale”, “con una visione fresca sul settore e sul nostro gruppo in particolare”. Che, al di là delle precedenti considerazioni, nessun manager della moda sia stato ritenuto all’altezza del compito dovrebbe far riflettere.