Quanto è concreto il pericolo di una bomba atomica dell’Iran

Come ci si è accorti di quello che stava facendo Teheran con l’uranio? Cosa significa quando si dice che potrebbe avere presto la Bomba? È davvero così? Risposte per orientarsi nel conflitto, a cura dell’“Avvocato dell’atomo”

La doverosa premessa di questo articolo è che nessuna menzogna rende un buon servizio a una causa giusta. Nel drammatico teatro mediorientale, identificare la “causa giusta” è difficile (forse impossibile) e il mio contributo al dibattito non andrebbe oltre l’espressione di un’opinione – magari informata, ma più sempre doxa; nondimeno, entrambi gli schieramenti in questi giorni stanno facendo uso di retoriche infuocate basate su informazioni travisate e/o fuorvianti, e dunque mi sembra rilevante cercare di portare un po’ di ordine su un paio di questioni puramente tecniche.

Alcuni giorni fa, come sappiamo, le forze armate israeliane hanno lanciato un attacco missilistico contro l’Iran, che ha interessato soprattutto obiettivi militari e siti nucleari. In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, sono stati colpiti il reattore di ricerca di Arak e il centro di arricchimento di Natanz.

L’attacco è avvenuto a meno di 72 ore dalla prima risoluzione ufficiale della International Atomic Energy Agency (Iaea) che condannava l’Iran per violazione degli obblighi sulla salvaguardia nucleare (ricordiamo che la salvaguardia – in inglese “safeguard” – in questo contesto significa “prevenzione della proliferazione nucleare militare”, mentre per la sicurezza operativa dei reattori si usa la parola “safety”). In altre parole, l’Agenzia delle Nazioni Unite a cui pertiene il settore nucleare (sia civile che militare) ha accusato esplicitamente l’Iran di perseguire scopi “non esclusivamente civili”, ovvero di puntare alla realizzazione di uno o più ordigni nucleari. La risoluzione della Iaea è stata approvata dal board con una maggioranza di 19 voti su 35 membri: il passaggio successivo è la presentazione della mozione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che può approvarla o rigettarla. In caso di approvazione, si procede con le sanzioni.

La risoluzione arriva dopo diversi anni in cui gli ispettori della Iaea avevano lamentato difficoltà di accesso alle strutture del programma nucleare iraniano e manomissione delle telecamere che garantivano il monitoraggio internazionale: si tratta quindi della certificazione nero su bianco di un processo che va avanti da tempo. Anche se la risoluzione Iaea non dimostra che l’Iran stia assemblando ordigni nucleari, sarebbe molto ingenuo (o in malafede) minimizzare le preoccupazioni di un’agenzia che ha come primo mandato quello di far rispettare i trattati di non proliferazione (trattati ai quali, si dirà, Israele ha scelto di non aderire: vero, e le ragioni di questa scelta sarebbero un interessante spunto per un dibattito politico, dal quale mi astengo volentieri).

Dall’altra parte, però, le dichiarazioni con cui il primo ministro israeliano ha giustificato l’attacco preventivo contro Teheran stonano in maniera altrettanto stridente: Netanyahu ha infatti dichiarato che l’Iran avrebbe la capacità di realizzare nove o dieci bombe nucleari, il che è quantomeno una grossolana esagerazione.

Entriamo un po’ nel tecnico: una bomba a fissione si può fabbricare in due modi: o con uranio arricchito (con concentrazione di uranio 235, l’isotopo fissile, superiore al 90 per cento) o con plutonio (con concentrazione di isotopi dispari, quindi plutonio 239 o plutonio 241, superiore all’80 per cento).

L’uranio arricchito si produce a partire dall’uranio naturale, nel seguente modo: prima di tutto occorre raffinare il minerale, ottenendo Octossido di Triuranio (U3O8, questo composto è noto anche come “yellowcake”), poi bisogna convertirlo in Esafluoruro di uranio (UF6). L’esafluoruro di uranio ha una temperatura di ebollizione di 57 °C, quindi può essere facilmente portato allo stato gassoso; inoltre il Fluoro ha un solo isotopo stabile, per cui la differenza di massa tra due molecole di UF6 è dovuta solo ai differenti isotopi dell’uranio (U235 e U238).

Il gas di UF6 viene quindi messo in speciali centrifughe, che, girando, separano gli isotopi: le molecole più pesanti vengono spinte di più verso l’esterno a causa della maggiore inerzia, dunque il gas al centro avrà una concentrazione più elevata di U235.

Facendo più passaggi, si possono ottenere composti con concentrazioni di fissile sempre più elevate: tipicamente i reattori civili viaggiano con concentrazioni tra il 3 e il 5 percento (nell’uranio naturale il fissile è solo lo 0,72 per cento), mentre per alcuni reattori di quarta generazione e reattori di ricerca servono concentrazioni più alte (18-20 per cento, in questo caso di parla di Haleu – High Assay Low Enriched Uranium). Alcuni reattori di ricerca e applicazioni militari (propulsione navale) usano arricchimenti anche più alti, ma in generale sopra il 60 per cento si parla di arricchimento “weapon-grade”, in quanto sostanzialmente l’unica applicazione possibile è la fabbricazione di ordigni.

L’alternativa all’uranio sono ordigni al plutonio: quest’ultimo ha una massa critica inferiore e ha anche qualche vantaggio in termini di lavorabilità del metallo, ma non esiste in natura, e pertanto va prodotto irradiando l’uranio 238 con neutroni. Questo avviene in maniera spontanea all’interno dei reattori nucleari, ma l’elevata fluenza neutronica e la lunga permanenza del materiale nel nocciolo fanno sì che il Pu239 si contamini con Pu240 (attraverso catture neutroniche) e Pu238 (tramite catture neutroniche successive dell’U235 che diventa U236, poi Np237 e infine Pu238), che sono inadatti a fini militari. Per produrre plutonio weapon-grade servono quindi tipicamente reattori a basso burnup (il burnup è il tasso di conversione del metallo pesante in energia), mentre per scopi civili è conveniente che il burnup sia il più alto possibile.

Sebbene siano esistiti in passato reattori dual-use militare-civile (i famigerati Rbmk sovietici e i Magnox britannici), in grado di produrre sia plutonio a scopi militari che elettricità, sono ormai largamente caduti in disuso, essenzialmente perché facevano entrambe le cose abbastanza male (e gli Rbmk avevano anche quelle 2-3 caratteristiche problematiche che contribuirono al disastro di Chernobyl). Oggi chi vuole fabbricare plutonio a scopo militare lo fa costruendo reattorini di piccola taglia a basso burnup dedicati esplicitamente allo scopo, come ad esempio il reattore di Yongbyon in Corea del Nord, dedicato esclusivamente alla ricerca militare.

Allo stato attuale delle cose, non risulta che l’Iran abbia a disposizione plutonio weapon-grade: il reattore di ricerca ad acqua pesante di Arak non sembra essere stato utilizzato (fino ad oggi) con quello scopo, e si tratta di una delle strutture a cui gli ispettori dell’Iaea hanno avuto accesso.

E’ invece certo che l’Iran abbia arricchito almeno 400 kg di uranio a un livello superiore al 60 per cento, il che è molto vicino al livello necessario per la fabbricazione di ordigni – qui bisogna tenere presente che l’arricchimento diventa sempre più facile man mano che la concentrazione aumenta: salire dallo 0,72 per cento di fissile dell’uranio naturale al 3 per cento del combustibile nucleare civile richiede parecchio tempo e abbastanza energia, passare dall’attuale 60 al 90 per cento necessario per una bomba a fissione richiederebbe al massimo un paio di settimane.

Da 400 kg di uranio al 60 per cento si possono ricavare circa 200 kg di uranio weapon-grade, sufficienti per fabbricare il nocciolo di 9 o 10 ordigni nucleari. Attenzione però: avere il nocciolo non significa avere la bomba. Manca infatti ancora tutto il resto, in particolare occorre assemblare l’innesco e montare il tutto su un vettore adeguato.

Per quanto riguarda l’innesco, ne esistono di due tipologie: a pistola e a implosione. Nell’innesco a proiettile, una massa sotto-critica viene “sparata” contro un’altra massa sotto-critica e le due, unendosi, diventano un’unica massa critica.

Nell’innesco a implosione, una shell di esplosivi convenzionali crea un’onda d’urto sferica che comprime il core portandolo in criticità.

L’innesco a implosione oggi è il più utilizzato, dal momento che ha diversi vantaggi: è più sicuro (la detonazione accidentale è sostanzialmente impossibile), più compatto e soprattutto richiede una massa critica molto inferiore – in parte perché consente l’utilizzo del plutonio, che già ha una massa critica più bassa, e poi perché il core viene compresso e la massa critica diminuisce quando aumenta la densità. Il fatto di avere una massa e un volume del nocciolo inferiori, riduce anche la massa e il volume necessari per il tamper, la struttura rigida (solitamente uranio impoverito o Carburo di Tungsteno) che circonda il nocciolo, impedendogli di espandersi quando inizia a scaldarsi. Dunque, se si lavora bene sulla miniaturizzazione delle componenti, si può ottenere un ordigno sufficientemente leggero (meno di 200 kg totali) da poter essere montato su moderni missili ipersonici, che sono il vettore che dà maggiori garanzie di arrivare a bersaglio.

Una bomba con innesco a pistola, invece, dovrebbe essere sganciata da un bombardiere strategico o essere montata su missili balistici molto più grossi e facilmente intercettabili (i missili balistici intercontinentali russi e americani arrivano fino a 5 tonnellate di payload, ma sono fatti per separarsi e rilasciare diverse testate).

Ora, l’innesco a implosione richiede tecnologie piuttosto avanzate per la fabbricazione: non solo infatti la shell di esplosivi deve detonare in maniera perfettamente sincrona (il che richiede elettronica di precisione), ma l’onda d’urto si deve anche propagare verso l’interno come una sfera perfetta. Per ottenere questo risultato non basta che gli esplosivi siano disposti in maniera simmetrica, servono delle lenti esplosive che controllino la propagazione del fronte dell’onda d’urto, dandole la forma desiderata. Per realizzare queste ultime oggi si utilizzano particelle esplosive all’interno di una matrice di polimeri sintetici e schiume. L’Iran ad oggi non possiede (ad ogni evidenza) le tecnologie necessarie per fabbricare inneschi a implosione moderni. Ovviamente si possono ottenere risultati analoghi in maniera più grezza utilizzando esplosivi di diverso potere detonante piazzati in maniera oculata, ma sempre a scapito del peso dell’ordigno: le lenti esplosive erano state progettate già durante il progetto Manhattan e impiegate nella bomba Fat Man, ma si trattava di un ordigno di 4,6 tonnellate.

Sappiamo che l’Iran aveva iniziato a testare shell di esplosivi per inneschi a implosione già nel 2003, ma sappiamo anche che da allora non ha fatto significativi progressi: anche ipotizzando un trasferimento tecnologico da parte di Russia o Cina (comunque improbabile: il diritto internazionale le renderebbe responsabili dell’uso che l’Iran farebbe di un eventuale ordigno) la realizzazione di un ordigno moderno pronto all’uso richiederebbe come minimo 18 mesi. Non molto, ma sarebbe stato un tempo sufficiente per dare ancora qualche possibilità al negoziato.

E’ anche possibile – in effetti, probabile, secondo due esperti americani che ne hanno scritto sul New York Times a febbraio – che l’Iran possa decidere di cambiare approccio e perseguire la creazione di un’arma con innesco a pistola: in questo caso effettivamente l’ordigno potrebbe essere realizzato entro 2-3 mesi, ma si tratterebbe di una bomba puramente dimostrativa, buona per entrare nel club dei paesi con l’arma nucleare, magari efficace come deterrente nei confronti dei nemici sauditi, ma certamente non preoccupante per Israele.

I bombardamenti israeliani di questi giorni hanno messo temporaneamente fuori uso il sito di arricchimento di Natanz, già bombardato in passato e anche obiettivo dell’attacco informatico Stuxnet nel 2012, ma senza danneggiare in maniera grave le centrifughe (che sono sottoterra). Resta inoltre praticamente intatto il secondo sito di arricchimento dell’uranio a Fordow, che è protetto da una montagna. Sono però state messe fuori uso le difese antiaeree dei due siti, e sono state distrutte le sottostazioni elettriche che li alimentavano, il che quantomeno ritarderà ulteriori arricchimenti.

La centrale di Bushehr, unico impianto nucleare civile per la produzione di elettricità in Iran, non è stata coinvolta negli attacchi (il che dimostra ancora una volta che le strutture nucleari civili non sono obiettivi militari).

Al momento gli attacchi israeliani non hanno comportato nessuna dispersione di radiazioni, come confermato già dal comunicato ufficiale della Iaea. Nel caso di un attacco più in profondità (che non si può escludere arrivi in futuro), il rischio di contaminazione esiste, ma l’uranio ha un’attività specifica molto bassa, quindi il rischio per la salute della popolazione generale resta minimo (questo non toglie che per la Iaea qualunque contaminazione radiologica resti inaccettabile, da cui la severità del comunicato).

Riassumendo quanto detto fino ad ora, si può discutere se l’intenzione del regime di Teheran fosse quella di utilizzare un eventuale ordigno atomico una volta sviluppato, o di usarlo solo come deterrente: quello che non si può fare è fingere che l’intenzione di sviluppare armi nucleari da parte dell’Iran sia un’invenzione atlantista e paragonare una risoluzione della Iaea alla provetta di Colin Powell.

Allo stesso modo, si può discutere sulla liceità dell’operazione israeliana in termini di diritto internazionale e della guerra preventiva come forma di autodifesa legittima o meno: quello che non si può fare è sostenere che l’Iran avrebbe avuto un ordigno pronto ad essere sganciato su Israele in pochi mesi.

Coerentemente con la modalità con cui viene condotto solitamente questo dibattito, mi aspetto, dopo questo articolo, di venire apostrofato “sionista” e “antisemita” contemporaneamente.


Luca Romano è laureato magistrale in Fisica, dottorando in Ingegneria industriale, divulgatore scientifico e fondatore del progetto “L’Avvocato dell’atomo”

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