Un altro disastro aereo, un solo colpevole? Le cose sono più complesse

Dalla cabina di pilotaggio agli errori sistemici, passando per una fiducia ormai incrinata: la catena degli eventi va analizzata a fondo, prima di cercare un bersaglio

I video sono brutali: un Boeing 787 Dreamliner che si stacca appena da terra, il muso che si alza con fatica, poi un’improvvisa perdita di quota, lo schianto in un quartiere residenziale di Ahmedabad, India. Una gigantesca palla di fuoco. Un superstite. Centinaia di vittime. E una sola risposta, immediata, istintiva, condivisa: colpa della Boeing. Sui social, il verdetto è stato istantaneo e unanime: “Un’altra tragedia firmata Boeing”. “Se questa azienda fosse cinese, il CEO sarebbe già in galera”. “Ogni passeggero su un Boeing vola con una roulette russa sulle ali”. I toni non si risparmiano, e per molti l’incidente non ha bisogno di indagini: l’aereo è un Boeing, dunque è colpa della Boeing. Eppure, come spesso accade, la realtà è meno virale e più sfaccettata. In questo caso, perfino più tecnica. Il Dreamliner coinvolto – un modello 787 – ha accumulato oltre 1100 esemplari venduti dal 2011, con un record di sicurezza eccellente fino a pochi giorni fa. Era un velivolo vecchio di 11 anni, non uno di quelli sospetti dell’era Max, e soprattutto non risultano precedenti di incidenti mortali su quel modello. E allora?

Secondo molti esperti di aviazione, tra cui ex piloti, consulenti e investigatori, l’ipotesi più probabile – in attesa della scatola nera – non è un guasto meccanico, ma un errore umano. Greg Feith, ex membro del National Transportation Safety Board, ha parlato di “configurazione anomala” dell’aereo: flaps alzati (quando dovrebbero essere abbassati per il decollo), carrello mai ritratto, spinta insufficiente. Una combinazione di elementi che suggerisce un errore di procedura in cabina, non un difetto di fabbrica. Buzz Patterson, pilota per Delta per vent’anni, ha definito sconcertante la possibilità che i flap fossero nella posizione sbagliata: “Alla Delta, non si rulla nemmeno verso la pista finché il pilota e il copilota non controllano insieme i flap. E’ quasi infallibile”. Quasi. E se qualcosa è andato storto, non lo sapremo fino a quando la Flight Data Recorder – la “scatola nera” – non parlerà. Ma allora perché tutta questa voglia di colpevolizzare Boeing? Perché in fondo ce lo siamo meritati. Negli ultimi anni, l’azienda americana ha costruito intorno a sé una reputazione che sfiora l’autolesionismo: due incidenti mortali del 737 Max nel 2018 e 2019 (346 vittime), causati da un software difettoso introdotto in fretta; inchieste federali, multe miliardarie, accordi col Dipartimento di Giustizia per evitare procedimenti penali; e poi la morte sospetta di un whistleblower che denunciava irregolarità nella produzione.

Nel frattempo, gli incidenti minori – porte che si staccano in volo, fusoliere difettose – hanno fatto il resto, alimentando un’immagine di trascuratezza, di cinismo, di industrializzazione del rischio. Boeing è diventata sinonimo di compromesso sulla sicurezza, e questa reputazione, una volta conquistata, non si perde nemmeno quando l’aereo potrebbe non essere colpevole. E infatti, anche se le cause dell’incidente indiano sono tutt’altro che chiare, perfino alcuni esperti che escludono responsabilità tecniche non risparmiano critiche a Boeing. “Questo è ciò che l’azienda ha fatto a se stessa”, ha detto il consulente Mike Boyd. “Si è scavata la fossa”. Non è un giudizio tecnico: è un giudizio morale.

C’è un che di kafkiano nella posizione attuale della Boeing. Qualunque cosa accada, è comunque colpevole. Se un aereo precipita per un errore del pilota, è comunque colpa sua, perché non ha costruito un sistema a prova d’errore. Se è colpa della manutenzione, è colpa sua, perché non ha formato meglio le compagnie. Se non c’entra nulla, è colpa sua, perché ha perso il beneficio del dubbio. Questa dinamica ricorda la sorte di certi personaggi pubblici che, dopo una serie di gaffe o scandali, non riescono più a farsi ascoltare nemmeno quando dicono la verità. E’ lo stesso con Boeing: qualunque dichiarazione post‑incidente – anche le più sobrie, come quella del CEO Kelly Ortberg – viene vista come esercizio di pubbliche relazioni, non come gesto sincero. Ortberg ha saltato il Salone dell’Aeronautica di Parigi per concentrarsi sull’indagine, ma nessuno lo nota. O peggio: lo nota e lo deride.

Tutto questo fa il gioco di Airbus, l’altra metà del duopolio. Ma per i passeggeri il problema resta: non ci sono molte alternative. Boeing è ancora troppo grande per fallire, troppo centrale per sparire. E questo la rende, forse, ancora più odiata. Ma se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che esiste una differenza tra una colpa passata e una colpa presente. Il Dreamliner non è un aereo maledetto. Non ha precedenti. Se davvero l’incidente di Ahmedabad è stato causato da un errore umano, sarebbe ingiusto usarlo per alimentare una narrativa comoda ma imprecisa. Eppure, così funziona oggi l’informazione: la narrazione viene prima della conferma, il colpevole prima dell’istruttoria.

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