Processo al testimone, spesso inattendibile

Mai come oggi, soprattutto per via mediatica, spuntano anche a distanza di anni supertestimoni che darebbero una svolta ai casi più intricati. Eppure tanti fattori psicologici deformano i ricordi, confondono i dettagli, distorcono le ricostruzioni. La prova in una storia vissuta in prima persona

Le urla di rabbia e di terrore. Il coltello. Il sangue. Il corpo che crolla a terra. La gente che si accalca, impotente e sbigottita, davanti a un cadavere riverso in una raccapricciante pozza rosso scura che si allarga sull’asfalto. La fuga. Le sirene. I camici bianchi. Le divise… Tutto questo a neanche tre metri dai miei occhi.


Testimone oculare. Supertestimone, si direbbe oggi visto che il prefisso maggiorativo sembra inevitabile per chiunque abbia qualcosa da raccontare su un omicidio, magari a distanza di vent’anni. Magari dopo aver taciuto per sei lustri. Eppure magistrati, avvocati, criminologi, psicologi e perfino i cronisti più smagati conoscono benissimo meccanismi come falsa memoria, suggestionabilità investigativa, focalizzazione sull’arma e tutti quei fattori psicologici che deformano i ricordi, confondono i dettagli, distorcono le ricostruzioni. Tutta roba descritta, analizzata, catalogata ma di cui, quando un giallo diventa “IL GIALLO” e inizia il gioco a chi più ne ha più ne metta, perfino alcune procure sembrano essersi dimenticate. Il valore di un teste, in un’aula di giustizia, non è mai assoluto, va sempre consolidato da altre voci o da riscontri obiettivi ma chi se lo ricorda? Nella fase investigativa, almeno a seguire con attenzione le puntate interminabili dei grandi casi mediatici, tutto fa brodo: un’intervista televisiva, il ricordo sfumato di un vicino, le voci raccolte al bar.

Fuffa che, alla lunga, finisce per inquinare tutto perché, in un’indagine giudiziaria seria, il superfluo è sempre dannoso. Qualcuno se ne preoccupa? Sembra proprio di no: avanti il prossimo. L’essenziale è tenere alta la tensione… e l’attenzione del pubblico. E la Verità, quella con la maiuscola?



La Verità spesso ha molte facce e ho dovuto constatarlo nel modo più drammatico tanti anni fa, in un gelido capodanno a Lucca, quando ho assistito di persona a un omicidio in strada. Proprio così. Testimone oculare. Superteste, appunto. Se non che…



No, prima i fatti, poi le considerazioni come insegna qualsiasi manuale di buon giornalismo (esiste ancora il buon giornalismo? Auguriamoci di sì). Mancano due giorni a Capodanno, fa un freddo boia, sono arrivato da poco a Lucca assieme alla mia compagna di allora (giornalista anche lei e, alla fine, altrettanto confusa da quello che abbiamo visto). Prima tappa, un giretto a piedi in centro, con sosta alle bancarelle di un mercatino per comprare un paio di guanti e, visto che c’ero, una grossa torcia elettrica di metallo del tipo in dotazione alla polizia americana: una specie di mazza ferrata che avrà un ruolo in questa storia o quantomeno, nei miei tormenti personali successivi.



Sono voltato di spalle, mi sto infilando con sollievo i guanti economici di lana sulle mani intirizzite quando sento una voce femminile che strilla in tono isterico seguita da una sorta di ringhio e di imprecazioni incomprensibili. Mi giro e vedo una donna sulla cinquantina e un uomo più giovane che si accapigliano e sembra che stiano contendendosi qualcosa. Per qualche motivo mi sembra di inquadrare al volo la situazione: due clochard che stanno litigando tra loro. “Lassa sta che l’è roba de barbun” come cantava Enzo Jannacci. Non ci faccio più caso e mi volto a cercare Antonella che, nel frattempo, si era allontanata di qualche passo ma…


Le urla si fanno più forti, accompagnate da qualche esclamazione dei passanti. Guardo meglio: quello che mi sembrava un litigio banale è diventato una lotta feroce, la donna cerca di scappare, si divincola, si sbraccia. L’uomo la tiene ferma con una mano, infila in tasca l’altra, impugna una lama e le taglia la gola. Di netto. Un attimo.



Sequenze al rallentatore, pietrificate nella mia mente da allora. Lo schizzo violentissimo, di sangue che sgorga dall’arteria tranciata di netto. La vittima che oscilla qualche istante prima di piombare giù di faccia, senza neanche mettere avanti le mani, distruggendosi il viso sull’asfalto. E ancora…



L’assassino, un ragazzo sulla trentina o almeno così mi era sembrato, che si guarda attorno, attonito, sbalestrato, come se non si fosse reso conto di cosa aveva fatto prima di girarsi e scappare a piedi. L’ambulanza che arriva subito. I barellieri che si chinano sul corpo ma non possono fare altro che coprirlo con un lenzuolo: morte istantanea. Qualcuno che grida “L’hanno preso” e poi altre voci che confermano: “L’hanno arrestato, l’hanno arrestato”. Tutto in meno di cinque, dieci minuti al massimo.


E io? Paralizzato dall’orrore. Tre parole che avevo scritto centinaia di volte prima di capirne veramente il significato per averlo sperimentato di persona. Immobile. Bloccato come un coniglio abbagliato dai fari di una macchina. L’inutile torcia elettrica che avrei potuto usare per lanciarla contro l’aggressore o colpirlo penzolante in mano. Trent’anni di arti marziali da contatto pieno dimenticate.



Lo shock fa questi effetti ma un cronista di nera già esperto, che aveva visto più cadaveri di un necroforo e più feriti di un infermiere, avrebbe dovuto avere qualche capacità di reazione in più. Invece niente. Immobile. Inutile. Incapace.



E ne aggiungo un’altra, la peggiore di tutte: inattendibile. Già perché dopo l’omicidio non chiamai il giornale, visto che lavoravo già a Repubblica e il quotidiano di allora si occupava pochissimo di nera, a differenza di oggi e non avrebbe pubblicato una storia del genere, quindi me ne tornai in albergo a rimuginare e ad autoaccusarmi.



Il giorno dopo comprai i giornali locali e mi arrivò la seconda mazzata. Il viso che avevo stampato in mente era completamente diverso da quello del tizio stralunato che compariva nelle foto con le manette ai polsi e i vestiti macchiati di sangue. Anche la ricostruzione era totalmente differente da quella che avevo immaginato. L’assassino era un maniaco religioso che andava in giro con in tasca il coltello e un assortimento di santini. La vittima una signora di buona famiglia, in pelliccia (particolare che non ricordavo) capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’assassino l’aveva individuata nei suoi deliri mistici e le si era avventato fulmineamente contro al grido di “Sei il Diavolo”. Nessuno aveva avuto il tempo di intervenire.



Passai notti insonni tormentato dal senso di colpa e di inutilità. Da quel giorno mi sono chiesto centinaia di volte cosa sarebbe accaduto se l’assassino non fosse stato arrestato praticamente sul fatto. Presumibilmente avrei tentato di fare almeno il mio dovere di cittadino presentandomi alla polizia.


Già. Per dire cosa?


Il fotokit che avrei collaborato a ricostruire sarebbe stato diversissimo dal viso dell’omicida. La mia ricostruzione dei fatti falsata, lacunosa, colma di dettagli incoerenti. Insomma, sarei stato più d’intralcio che altro e tutto in perfetta buona fede, animato solo dalla volontà di dare una mano, forse di riscattarmi dalla mia ignavia ma comunque senza alcun secondo fine.


In seguito ho parlato di questo episodio con psicologi, criminologi, magistrati, avvocati e, sì, anche con un sacerdote, in cerca di comprensione e forse di assoluzione. La risposta è stata sempre la stessa: è normale, smettila di tormentarti, la psiche funziona così. Le parole pacate del prete di Lucca che mi ascoltò a lungo in silenzio, forse, sono state quelle che mi sono rimaste più impresse: la nostra mente non è abituata all’orrore. Quando ci troviamo davanti a qualcosa di imprevisto e di terribile, di totalmente inaspettato le percezioni cambiano, si distorcono e il corpo si paralizza, si blocca, rifiuta l’azione. Ne uscii un po’ rinfrancato ma pieno di domande senza risposta. E di dubbi, dubbi che mi affliggono anche adesso quando leggo o sento di testimoni che descrivono minuziosamente una bicicletta, un paio di scarpe blu con la stella, un attizzatoio col manico a forma di pigna, una ragazza col caschetto biondo, un borsone gettato in un rigagnolo, una signora che si allontana di spalle, un uomo con barba, coppola e torcia elettrica e, insomma, tutto l’armamentario di testimoni a scoppio ritardato che la televisione ci propina ogni giorno. Ma come fanno a essere così precisi? Come possono essere liberi dalle influenze della falsa memoria, da tutto quello che hanno letto, visto o sentito nel frattempo? E che ruolo hanno le suggestioni, le insinuazioni, le domande capziose, la voglia di protagonismo?


La letteratura giudiziaria e criminologica in materia di testimonianze oculari è ponderosa ma non mi sembra il caso di trasformare questo pezzo in un noiosissimo trattato. Tra i tanti esempi pratici mi limito a ricordare un esperimento del 1991 con il regista Marco Visalberghi. A otto testimoni venne mostrato un filmato in cui un ragazzo veniva accoltellato da un altro dopo una lite. Successivamente gli organizzatori distribuirono diverse fotografie tra cui, però, non c’era il viso dell’assalitore. Tutto si svolgeva in un ambiente confortevole, con grande calma, senza alcun fattore di stress, tra persone motivate e collaborative. Ebbene, sei “testimoni” su otto furono certi di aver riconosciuto il sospettato in una delle foto trabocchetto. Nel filmato, in realtà, il volto dell’aggressore non si vedeva mai: era sempre ripreso di spalle. Nessuno se ne era ricordato.


Uno dei meccanismi psicologici più ricorrenti, in questi casi, è la focalizzazione sull’arma. Una pistola o un coltello (se non siamo armieri, agenti, poliziotti o tiratori sportivi) non fanno parte del nostro panorama visivo quotidiano. E’ quello che attrae la nostra attenzione come una calamita. Esattamente ciò che accadde durante l’esperimento che ho citato: i partecipanti erano come ipnotizzati dal coltello. Tutto il resto appare sfuocato, distorto, avvolto in una sorta di nebbia mnemonica. Una cosa che da cronista di nera ho accertato fin dall’esordio. Negli anni Settanta le rapine in banca erano una faccenda di armi, mitra, spari, inseguimenti, perfino bombe a mano. Noi giornalisti correvamo come lepri e raccoglievamo le testimonianze più discordanti: erano tre, no quattro, uno basso e massiccio no, alto e secco con l’impermeabile, guardi, ricordo benissimo, aveva un giubbotto scuro. L’auto per la fuga? Di tutti i modelli e i colori possibili e immaginabili. Alla fine toccava fare la cernita cercando di far quadrare il conto con le ricostruzioni degli investigatori scartando i testimoni più evidentemente incoerenti e cercando di omologare le altre. Ma i riconoscimenti farlocchi erano all’ordine del giorno, esattamente come oggi.


La differenza? Possiamo riassumerla in una sola parola: cautela. Le cronache degli anni di piombo, gli anni del terrorismo e delle grandi guerre di malavita, sia a Roma che altrove, erano rigorose, meticolose, professionali. Si guardava, si ascoltava, si raccontava senza farsi influenzare dai social che non esistevano ancora, dalle agenzie di stampa che erano solo voce ufficiale, dai pettegolezzi che nessuno ascoltava.



E oggi? Leggiamo i tormentoni sul delitto di Garlasco, sulla morte di Liliana Resinovich, sull’omicidio di Pierina Paganelli. Una albergatrice che tre anni fa ha assistito a un banale screzio tra coniugi diventa una superteste, un’inquilina a cui sembra di ricordare di aver sentito un rumore in garage è la voce che darà una svolta decisiva alle indagini, un commerciante che non si raccapezza bene se quei coltelli furono depositati lunedì o martedì è il riscontro negativo che fa crollare un alibi. E le cautele? La tecnica di intervista cognitiva per evitare di influenzare un teste? Tutto rimandato alla Corte d’Assise visto che secondo il codice di procedura penale la prova si forma in dibattimento? Già ma se la prova è falsata fin dall’inizio che valore può avere? La mia pessima impressione è che talvolta si indaghi più per le telecamere che per il verdetto finale. Inchieste spettacolo che forse non arriveranno mai a un processo.



La gente però ci crede. Spettatori, lettori, follower fagocitano, metabolizzano tutto e ne chiedono ancora. Dibattono, discettano, si schierano, polemizzano fino all’insulto con foga calcistica. E gli investigatori? Ci credono anche loro? Pm, carabinieri, poliziotti, periti, esperti che, a furor di stampa, sono infallibili o totalmente incompetenti a seconda di come spira il vento? Personalmente mi auguro di no, che il polverone mediatico non appanni la visione rigorosamente scientifica di chi conduce le indagini in campo. Me lo auguro ma….



Mi restano i dubbi. Tantissimi dubbi.

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